Chi ha avuto modo di incontrare Sergio Mattarella e di raccoglierne gli umori, pur nella parsimonia abituale del suo eloquio, ne ha ricavato l’impressione di un uomo amareggiato. Costretto dalle sue funzioni a condividere e persino spalleggiare, di tanto in tanto, l’ottimismo del giovane presidente del Consiglio Matteo Renzi, ma consapevole delle difficoltà nelle quali è costretto a muoversi in Italia qualsiasi governo, e qualsiasi capo dello Stato.
Le maggiori amarezze sono procurate a Mattarella dal persistente conflitto fra la magistratura e la politica, cui gli è capitato di assistere personalmente all’apertura del congresso dell’associazione nazionale dei magistrati. Dove, pur tra alti e bassi, affondi e precisazioni successive, è uscita confermata una diffidenza delle toghe verso l’esecutivo, a questo punto senza tante distinzioni fra un governo e l’altro, di questo o quello schieramento. Una diffidenza che lui, anche in veste di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non vuole, e non può o non vuole denunciare con la forza forse necessaria per non buttare altra legna nel fuoco, ma che lo delude profondamente.
Con ciò Mattarella non vuole negare tuttavia che anche la politica abbia le sue responsabilità, sottovalutando per esempio i problemi delicatissimi del funzionamento degli organi di garanzia come la Corte Costituzionale. Che è ormai costretta a riunirsi e a deliberare ai limiti del cosiddetto numero legale, mancando tre dei cinque giudici di elezione parlamentare, scaduti da tempo e non ancora sostituiti per l’incapacità delle forze politiche di trovare un accordo in occasione delle ripetute convocazioni delle Camere in seduta comune. Uno dei tre posti vacanti, peraltro, e da meno tempo rispetto agli altri, è proprio quello di Mattarella, che era giudice della Consulta quando fu eletto al Quirinale, il 31 gennaio scorso, al quarto scrutinio, con 665 voti, 160 in più della maggioranza assoluta richiesta dopo le prime tre votazioni, nelle quali la maggioranza necessaria era dei due terzi, pari a poco più di 670 voti.
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Un altro cruccio è stato procurato al capo dello Stato dallo scandalo esploso negli uffici giudiziari della sua amatissima Palermo, dove la giudice Silvana Saguto è stata allontanata dalla guida della sezione del tribunale per le misure preventive e la confisca dei beni mafiosi a causa dei gravissimi abusi emersi dalle indagini, con il supporto delle intercettazioni. In alcune delle quali, particolarmente quelle delle conversazioni telefoniche avute dalla giudice il 19 luglio scorso, il povero Mattarella si è sentito personalmente, e non a torto, ferito.
Nel criticare i figli del magistrato Paolo Borsellino, ricordato proprio quel giorno per la sua tragica fine nella lotta alla mafia, la Saguto se la prese con l’emozione di Manfredi Borsellino, che dopo il suo intervento in memoria del padre, e di solidarietà con la sorella appena dimessasi da assessore regionale alla Sanità, abbracciò il capo dello Stato con una familiarità visibilmente ricambiata.
Ancora più amarezza hanno procurato al presidente della Repubblica interviste e dichiarazioni con le quali la giudice ha poi dimostrata di non essere per niente pentita delle frasi pronunciate, o comunque di non sentirsi obbligata alle scuse. Neppure, evidentemente, al capo dello Stato, in fondo da lei coinvolto nella rappresentazione, diciamo così, critica di quella commemorazione di Paolo Borsellino. Cui si doleva di aver dovuto partecipare sfiancata o infastidita, secondo le sue stesse parole, da una giornata troppo calda.
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C’è un’altra vicenda giudiziaria nella sua amata Palermo che ha amareggiato il presidente della Repubblica, ma anche i suoi familiari, particolarmente i nipoti Bernardo jr e Maria, figli del fratello Piersanti, il presidente della regione siciliana ucciso dalla mafia nel giorno dell’Epifania del 1980.
Di questa vicenda giudiziaria il capo dello Stato non parlerebbe in pubblico, giustamente, neppure sotto tortura. Ma non si può non rimanere sorpresi dalla proposta di conciliazione avanzata dal giudice Enrico Catanzaro, della prima sezione civile del tribunale palermitano, per chiudere la causa intentata da Sergio Mattarella e dai nipoti contro il giornalista Alfio Caruso e la casa editrice Longanesi per un libro pubblicato nel 1980 – “Da cosa nasce cosa” – diffamatorio nei riguardi del padre del capo dello Stato, Bernardo, morto nel 1971, ex ministro di Aldo Moro. Un libro i cui si ritrovano, fra l’altro, sospetti e insinuazioni sui rapporti fra Bernardo Mattarella e la mafia comparsi nel 1965 in un saggio di Danilo Dolci costato all’autore una condanna per diffamazione.
Il giudice Catanzaro ha proposto il 13 ottobre scorso ai promotori della causa di rinunciare alla richiesta di danni per 250 mila euro, di accollarsi con la casa editrice le spese legali sostenute da Caruso e di accontentarsi della pubblicazione, sul sito telematico della Longanesi, di una precisazione sulla condanna subita da Dolci nel 1965. Della ristampa del libro, richiesta dai promotori della causa, senza le parti lesive dell’onore di Bernardo Mattarella, neanche a parlarne.
Nella prossima udienza, il 23 novembre, i Mattarella dovranno dire sì o no alla proposta di conciliazione, che naturalmente ha pienamente soddisfatto l’autore del libro, sapendo che in caso negativo, e con un verdetto contrario, dovranno assumersi per intero le spese delle udienze precedenti la sentenza.