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Renzi, la Dc e le sparate di Marino

C’è una costante nelle polemiche interne ed esterne al Pd. E’ la protesta contro il clima permanente di congresso nelle file del partito di maggioranza. Come accadeva all’epoca della cosiddetta prima Repubblica con l’allora partito di maggioranza, che era la Democrazia Cristiana. I cui alleati ed avversari si dolevano delle turbolenze interne, solo apparentemente e comunque provvisoriamente composte nei congressi. Se ne chiudeva uno, di congresso, con la formazione di una maggioranza e di una minoranza e subito ci si preparava al successivo, ben prima delle scadenze ordinarie, essendo gli sconfitti mai rassegnati al ruolo di perdenti e volendo prepararsi alla rivincita. Una realtà che avverte anche Renzi, che se ne difende però con il contropiede, sfidando i suoi contestatori all’appuntamento del 2017.

Dalla tenuta della maggioranza di turno e del tentativo di rivalsa della minoranza avevano in genere da temere gli alleati di governo della Dc, e da sperare gli oppositori. Ma anche fra gli alleati c’era chi aveva da sperare: chi, per esempio, aspirava ad un rapporto privilegiato rispetto agli altri, per quanto in apparenza i socialisti avessero ottenuto dopo la prima fase del centrosinistra, quella guidata da Aldo Moro a Palazzo Chigi, il riconoscimento formale di un rapporto “paritario”. Tanto paritario che nel 1979 Bettino Craxi pose il problema della guida socialista, realizzata nel 1983, della coalizione di governo, per quanto il Psi avesse solo un terzo dei voti della Dc. Ma già nel 1981 i democristiani, non volendosi arrendere subito a Craxi, accettarono il passaggio a Palazzo Chigi di Giovanni Spadolini, il cui partito – il Pri dell’edera – aveva non un terzo ma qualche decimale dei voti democristiani.

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Mi direte che tutto questo è ormai è preistoria. E non avete tutti i torti. I più giovani di voi non hanno avuto neppure la possibilità di assistere, e tanto meno di partecipare, a quegli avvenimenti, e alle lotte che li accompagnavano.

Eppure fra allora ed oggi c’è qualcosa in comune. C’è un partito centrale, attorno al quale ruotano tutti gli equilibri, a dispetto del tanto decantato bipolarismo vantato e un po’ anche sperimentato nel 1994 con l’esordio del sistema elettorale solo parzialmente proporzionale, e soprattutto con l’irruzione di Silvio Berlusconi nella scena politica devastata dal terremoto di Tangentopoli.

Allora il partito centrale era la Dc, ora è il Pd, da cui sono attratti o respinti tutti gli altri, anche se i grillini corrono presuntuosamente da soli e a destra si incrociano, si accavallano e insieme si disperdono tentativi e ambizioni di ricostituire quello che fu per una ventina d’anni, fra le elezioni del 1994 e del 2013, il centrodestra berlusconiano.

Il Pd ha potuto prendere il posto della Dc, sottraendolo a Berlusconi, solo quando a guidarlo è arrivato Renzi. Che, di provenienza democristiana, politicamente e culturalmente, ha messo nell’angolo, almeno sinora, la componente di provenienza comunista. Diversamente, se fosse rimasto alla guida Pier Luigi Bersani, con la presunzione di poter governare cercando continuamente una sponda nei grillini, ancor più che in Nichi Vendola, il Pd non avrebbe certamente potuto diventare centrale come fu la Dc. E vedere affollarsi alle sue porte singoli e gruppi dell’ex centrodestra aspiranti a diventarne alleati organici: meglio con una legge elettorale modificata rispetto a quella approvata in primavera per la Camera, con il premio di maggioranza destinato alla lista e non alla coalizione più votata, ma in fondo anche con la legge non modificata, se non finirà nel frattempo al pronto soccorso della Corte Costituzionale, visti i ricorsi annunciati un po’ dappertutto.

La selezione dei centristi, o ex centristi, per l’accesso a una sola lista targata Pd sarà più dura, e per molti più dolorosa, ma sarà inevitabile sottoporvisi, almeno fino a quando nell’ex area berlusconiana si continuerà a buttare diserbante.

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La prova più evidente e significativa della capacità attrattiva di Renzi nei riguardi dei centristi è venuta di recente dalle aperture e dai riconoscimenti di Pier Ferdinando Casini, sia per la storia personale dell’ex presidente della Camera, e attuale presidente della Commissione Esteri del Senato, sia per lo sfarinamento dell’area cosiddetta popolare, prodotta dall’unificazione fra l’Udc dello stesso Casini e il partito del ministro dell’Interno Angelino Alfano. Un’area che solo se davvero unita e compatta avrebbe potuto costituire per Renzi un problema, diciamo pure un ostacolo al consolidamento del ruolo centrale del suo partito. Ma Dio, si sa, acceca coloro che vuol perdere. Parola di Isaia.

Una parola, quella del profeta, che vale anche per Ignazio Marino, che continua a dimenarsi inutilmente nel cunicolo in cui si è infilato da solo, sparandole così tante e di così grosse che ne è rimasto stordito per primo. Probabilmente festeggerà le dimissioni da dimissionario andando anche a dormire con la fascia tricolore di sindaco addosso. Ma per farne che cosa? Lo chiese beffardamente Palmiro Togliatti al compagno Giancarlo Pajetta ricevendone nel 1947 al telefono la notizia di avere occupato la Prefettura di Milano, dopo la rimozione del comunista Ettore Troilo disposta dal ministro dell’Interno Mario Scelba.

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