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Perché Sabelli e Renzi guerreggiano

Passi per la detrazione delle prime case, passi pure per l’aumento del contante consentito alla cassa, passi infine per le sfide all’Unione Europea sul terreno della flessibilità, reclamata per uscire dall’austerità recessiva, ma ad essere paragonato a Silvio Berlusconi anche nei rapporti con la magistratura il presidente del Consiglio non ci sta.

“Non possono parlare di noi come se si trattasse di Berlusconi”, avrebbe detto ai suoi, per telefono dal Sudamerica, Matteo Renzi una volta informato dell’attacco sferratogli al congresso di Bari, presente addirittura il capo dello Stato, dal presidente dell’associazione nazionale dei magistrati Rodolfo Sabelli. Il quale è convinto che sia in atto da parte della politica, ma più in particolare del governo, “una strategia consapevole di delegittimazione” della magistratura, “in forma meno accesa” degli anni di Berlusconi a Palazzo Chigi, visto che l’attuale presidente del Consiglio non ha processi a carico, o non ancora, “ma più complessa”.

Un banco di prova di questa strategia della delegittimazione è stato indicato dal capo del sindacato delle toghe nella ostinata ricerca di una diversa disciplina delle intercettazioni, cui il governo dedica “più attenzione che alla mafia”.

Ma un altro banco di prova s’intravede nella protesta di Sabelli contro la pretesa di “subordinare la giustizia all’economia”. E qui l’obbiettivo della polemica non è parso tanto o solo il governo, quanto il presidente della Repubblica in persona, Sergio Mattarella, ospite d’onore del congresso, seduto in primissima fila tra le autorità locali e il vice presidente operativo del Consiglio Superiore della Magistratura. A Mattarella probabilmente Sabelli non ha voluto perdonare la solidarietà espressa alla Banca d’Italia in generale, e al governatore Ignazio Visco in particolare, finito sotto indagine giudiziaria per l’espletamento delle sue funzioni di controllo su una banca locale.

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In verità, agli occhi non solo dei giornalisti presenti ma anche del pubblico di tutta Italia che ha potuto vedere le immagini a casa, sbirciando i telegiornali e le trasmissioni di cosiddetto approfondimento, colpivano il ghigno polemico del presidente del sindacato delle toghe, sul palco, e il volto inespressivo del capo dello Stato che gli sedeva di fronte: immobile come una mummia, senza volerne naturalmente e minimamente offendere la persona, ma solo per sottolinearne la voluta indecifrabilità.

Viene voglia di chiedersi per quale motivo capi di Stato e di governo, anche se in questo caso Renzi si è lodevolmente tenuto a distanza, ministri, sottosegretari e quant’altro si ostinino a considerarsi obbligati per ragioni di galateo istituzionale a correre ai congressi dell’associazione nazionale dei magistrati, visto che sono ormai diventati occasioni di attacchi alla politica, nella presunzione di difendersene da atti o, solo, propositi prevaricatori.

Viene altresì voglia di chiedersi, se davvero Renzi, come ha raccontato Liana Milella su Repubblica, si è arrabbiato nel suo viaggio in Sudamerica di fronte alle notizie giuntegli da Bari, come mai si sia dimenticato di disporre un minino di reazioni ufficiali e visibili. Il responsabile Pd dei problemi della giustizia, David Ermini, si è limitato a lamentare “frasi ingenerose” di Sabelli. E l’Unità nella nuova edizione renziana ha ritenuto di non dover dedicare alla vicenda in prima pagina un solo rigo. Silenzio anche dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, notato solo nelle immagini televisive per la rapida e neppure tanto atletica discesa delle solite scale.

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Il tema scelto dal sindaco delle toghe  -le intercettazioni – per quella che è stata definita su qualche giornale “la prova di forza” o “la linea di trincea” dell’interminabile guerra fra magistratura e politica, o viceversa, è indicativo della gravità e, insieme, gratuità degli argomenti delle toghe.

Si capirebbe, e si potrebbe persino condividere, un timore dei magistrati in materia di intercettazioni se fosse alle porte una nuova disciplina per ridurre la possibilità di ricorrervi da parte degli inquirenti. In discussione invece è la divulgabilità delle intercettazioni prima del processo, vista la frequenza con la quale finiscono nelle cronache giudiziarie e politiche le trascrizioni di telefonate e quant’altro riguardanti persone e fatti estranei agli accertamenti dei reati.

In gioco, con una eventuale e più stringente disciplina della divulgazione delle intercettazioni, non sono i processi regolari, quelli che si svolgono nelle aule dei tribunali, con le garanzie e le regole dei codici. In gioco sono solo i soliti processi mediatici, che precedono e a volte persino vanificano i processi regolari, con verdetti destinati ad essere poi smentiti dalle sentenze.

Di questi processi mediatici ai magistrati seri non dovrebbe interessare nulla. Dovrebbero anzi vederli schierati decisamente contro, per i pericoli che ne derivano all’esercizio di una serena giustizia, Perché allora li difendono tanto, preoccupandosi dei limiti che potrebbero subire? Evidentemente ci sono pubblici ministeri, e a volte persino giudici, che considerano il processo mediatico una utile sponda al processo regolare: utile anche a condizionare le sentenze di condanna, precedendole o addirittura sostituendole, quando il processo regolare si perde per strada, si estingue per prescrizione o morte dell’imputato, o i giudizi di condanna di primo grado sono smentiti nei gradi successivi.


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