Metti una sera in Colorado che i tenori steccano o sono senza voce e vengono così fuori le seconde linee. E’ successo nel terzo dibattito in diretta tv tra gli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca: Donald Trump è ricaduto nel vizietto di strafare, tanto che il moderatore l’ha persino dovuto correggere; e Ben Carson ha ecceduto nel tacere, convinto che meno dice meno sbaglia.
I due battistrada della corsa alla nomination repubblicana non hanno brillato: Trump troppo ansioso di accentrare su di sé l’attenzione; Carson senza strumenti oratori né argomenti. C’è stata, invece, la rinascita di Chris Christie, finora in ombra tra campagna e sondaggi, e l’uscita alla ribalta delle seconde linee di questa competizione.
Il confronto, a Boulder, in Colorado, è stato il terzo della serie, dopo quelli di Cleveland, Ohio, in agosto e di Simi Valley, California, in settembre. Per la prima volta, Trump, magnate dell’immobiliare e showman, non partiva in testa: Carson, ex neuro-chirurgo, l’unico nero del lotto, l’ha infatti superato, in un sondaggio condotto da Cbs/NYT: 26% contro 22% di Trump.
Tutti gli altri 13 aspiranti alla nomination repubblicana erano sotto il 10%, prima del match di cui mancano ancora riscontri in termini di impatto sul pubblico.
Il dibattito è stato trasmesso dalla Cnbc dal Coors Event Center, Università del Colorado, ed è stato moderato da giornalisti della rete: dentro il centro, un pubblico incline all’applauso –Boulder è una roccaforte repubblicana-; fuori, manifestazioni di protesta d’immigrati, sindacati ed ecologisti anti-trivellazioni.
Se questa non era stata, finora, la campagna dei governatori, la serata di Boulder è, invece, stata la migliore per il governatore del New Jersey, Christie, grintoso ed efficace; e spazio hanno anche trovato l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee, un predicatore, il più assiduo nelle corse alla nomination, e – meno – il governatore dell’Ohio John Kasich, mentre l’ex governatore della Virginia Jeb Bush ha confermato di non essere a suo agio con questa formula.
In una serata senza tenori e senza dominatori, il senatore della Florida Marco Rubio, il più giovane del gruppo e uno dei favoriti, s’è limitato a fare i minimo sindacale. Neppure quello hanno fatto i senatori del Texas Ted Cruz, forse il meno loquace, e del Kentucky Ron Paul, il libertario, verboso e poco concreto.
In palla, invece, come già nel secondo dibattito, Carly Fiorina, l’unica donna, ex ceo dell’Hp: questa volta, Trump non l’ha stuzzicata; e lei se l’è presa direttamente con Hillary, di cui s’è proclamata “il peggiore incubo”. Bisogna, però, che la Fiorina non esca di scena tra un dibattito e l’altro.
La politica interna e l’economia hanno dominato la discussione, al termine di una giornata che aveva visto confermarsi l’accordo sul bilancio 2016 tra l’Amministrazione democratica e l’opposizione repubblicana che è maggioritaria nel Congresso – l’intesa è stata negoziata da John Boehner, speaker uscente della Camera – e delinearsi la designazione – per la sostituzione di Boehner – di Paul Ryan, deputato del Wisconsin e già candidato alla vice-presidenza nel 2012 in ticket con Mitt Romney. La nomina di Ryan sarà oggi ufficializzata.
Su alcuni punti, tutti i candidati, che hanno in genere evitato di ‘spararsi addosso’ e d’esporsi al ‘fuoco amico’, sono stati concordi: nella denuncia del ‘grande governo’ federale e nelle promesse di ridurne le dimensioni e le competenze, oltre che, naturalmente, le spese e il debito. Raffiche di critiche sono state indirizzate al presidente Barack Obama e alla candidata democratica Hillary Rodham Clinton, specie sulla riforma della sanità (l’Obamacare) e sulle loro politiche e i loro programmi sociali ed economici. E pure la stampa è finita sotto tiro: “Le vostre domande fanno capire perché il pubblico non ha fiducia in voi”, è stata l’unica battuta non banale di Cruz.
Gli attacchi reciproci sono invece stati pochi e più ironici che aspri, come quando Huckabee ha mostrato la sua cravatta a Trump dicendogli “E’ una delle tue”; e Bush, nell’unico momento efficace della sua serata, come al solito opaca, è intervenuto chiedendogli “Fatta in Cina?, o magari in Messico?”, dopo che Trump s’era impegnato a riportare negli Usa posti di lavoro cinesi e messicani. (gp)