I gruppi ambientalisti di tutto il mondo hanno festeggiato la decisione del gruppo petrolifero Shell di sospendere le trivellazioni nella costa settentrionale dell’Alaska, che rischia adesso la bancarotta e la perdita di centinaia di posti di lavoro. L’Alaska non ha pace. Nel 2014 è ripiombata in una recessione regionale dovuta al crollo del prezzo del petrolio e alla generale perdita di competitività e ora, l’abbandono dei principali progetti di sviluppo nel mare di Bering annunciato da Shell, mette in difficoltà il budget statale.
In uno degli Stati con il maggior tasso di disoccupazione registrata (6,6 per cento lo scorso agosto), le attività delle compagnie energetiche rappresentano un polmone economico vitale. Solo ad Anchorage, Shell impiega circa 400 lavoratori, ma in totale i progetti artici coinvolgono circa 3 mila lavoratori. C’è poi l’indotto, secondo l’Alaska Dispatch News: sono circa 140 le aziende che lavorano in connessione con Shell. L’unico settore che ha fatto registrare tassi di crescita in termini di occupazione è stato proprio quello dell’oil and gas, come ricorda Niel Fried, economista del dipartimento del lavoro dell’Alaska, un aumento di 15 mila unità la scorsa estate.
Lo Stato viaggia ora verso il default. Intervistato dal New York Times, un altro economista, il professor Gunnar Knapp, dell’Università dell’Alaska, ha ricordato come, dei 7 miliardi di dollari rimasti nelle casse, le risorse pubbliche si stanno esaurendo a un ritmo di 3 miliardi di dollari all’anno a causa dei mancati introiti dall’estrazione del greggio. Per il professor Karim Kassam, che insegna studi ambientali ad Anchorage, la mossa di Shell avrà implicazioni anche per l’economia delle comunità indigene del bacino di Chukchi. Non sono in pochi a sostenere che lo spettro del bailout potrebbe spaventare altre compagnie come Exxon Mobil e Conoco Phillips che stanno portando avanti progetti di estrazione nella zona.
Sono poco chiari i motivi che hanno portato Shell ad abbandonare i propri piani sul greggio artico. Solo qualche settimana fa, il presidente del gruppo, Marvin Odun, aveva parlato dei progressi nelle attività offshore in Alaska, enfatizzando il ruolo geopolitico dell’area. Ora il dietrofront, formalmente motivato sulla base di risultati non esaltanti. Pezzi di Shell, come Curtis Smith (alto dirigente), puntano il dito contro il quadro regolatorio in materia di ambiente che sta portando avanti l’amministrazione Obama. La Casa Bianca si sta apprestando, infatti, ad emanare specifiche norme per le trivellazioni artiche ancora più restrittive e costose.
“È nostra opinione che il presente sistema regolatorio è accompagnato da un elevato tasso di incertezza in termini di operatività delle operazioni offshore”, sottolinea Smith. Il tema si pone con prepotenza in molti altri Stati. Un altro programma che rischia di traballare è quello dell’oleodotto Keystone, che dovrebbe collegare il Canada agli Stati Uniti. Obama, che sta valutando l’esercizio del potere di veto per non bloccarlo, potrebbe tornare indietro nelle sue scelte su pressione delle lobby ambientaliste e della candidata alle prossime presidenziali, Hillary Clinton, che si è già opposta al tubo.
Le ong come Oceana, Greenpeace e il Wwf esultano. Esultano anche russi e cinesi, che hanno intensificato le loro attività di intelligence geofisica a largo delle coste dell’Alaska. Anche Eni (in compartecipazione con Statoil) si appresta a riaccendere l’esplorazione nell’artico con l’attivazione della mega piattaforma Goliat nel mar di Barents, tramite la quale punta a stabilire una produzione giornaliera di 100 mila barili di greggio.