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Tutti i numeri farlocchi sulle pensioni

Il dibattito sulle pensioni si è trasformato, ormai da troppo tempo, in una sorta di “Giostra del Saracino” dove tutti – ora in toni sguaiati e volgari come quelli di Matteo Salvini, ora con argomenti pseudo-tecnici come quelli del Ministero del Lavoro e dell’Inps – cercano di infilzare l’ex ministro Elsa Fornero e la riforma che porta il suo nome, nonostante il  voto “bulgaro” del Parlamento (distratto? coartato?), nell’inverno del 2011. “Flessibilità vo’ cercando” è ormai divenuto il grido di battaglia della “terribile coppia” delle due P: Padoan-Poletti.

Matteo Renzi ha ordinato loro di consentire alle nonne d’Italia di godersi il nipotino (nel silenzio assordante delle tardo-femministe) e i due ministri non possono che obbedire almanaccando tra i conti che non tornano. Per adesso, il solo ad essere contento è Cesare Damiano, il “santo patrono” degli esodati, al quale hanno promesso, nella prossima legge di stabilità, una settima salvaguardia.

Ma davvero la riforma Fornero è una specie di gabbia in cui resteranno imprigionati i lavoratori e le lavoratrici, impossibilitati ad andare in quiescenza se non ad età venerande? E’ questa una convinzione diffusa che, come tutti i luoghi comuni, viene accettata senza sforzarsi nemmeno di leggere le norme. Basterebbe, infatti, rammentare che nel requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia (pari, nell’anno in corso, a 66 anni + 3 mesi per i dipendenti pubblici e privati, per i lavoratori autonomi e per le lavoratrici del pubblico impiego; a 63 anni e 9 mesi per le lavoratrici dipendenti dei settori privati e a 64 anni e 9 mesi per quelle autonome) sono inclusi sia i 12 mesi (18 per gli autonomi) della c.d. finestra mobile, sia gli incrementi derivanti dall’aggancio automatico all’attesa di vita: misure adottate dal governo di centro destra (legge n.122/2010) e soltanto confermate nel 2011.

Le medesime considerazioni valgono per la pensione anticipata. Anche nel requisito contributivo, vigente nel 2015, di 42 anni e 6 mesi (per i lavoratori dipendenti pubblici e privati e gli autonomi) e di 41 anni e 6 mesi (per le lavoratrici di tutti i settori) sono assorbite le finestre mobili ed inclusi gli effetti della dinamica demografica. Tutto ciò a prescindere dall’età anagrafica. Il requisito dei 62 anni (praticamente sospeso fino a tutto il 2017) serve solo a definire l’ambito di una possibile penalizzazione sull’assegno di chi va in quiescenza anticipata in un’età inferiore (l’1% per i primi due anni e il 2% per quelli successivi).

E’ sufficiente fare un paio di conti per capire che si tratta di un taglio molto più modesto di quelli proposti, oggi, dai sostenitori della flessibilità in uscita. Per concludere, diamo la parola al Rapporto 2015 del MEF sulle “Tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”. Si scoprirà che l’insieme degli interventi di riforma, dal 2004 in poi, hanno prodotto una riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica sul PIL pari a 60 punti percentuali cumulati al 2060. Di questi, afferma il Rapporto, i due terzi sono dovuti alle misure adottate prima della c.d. riforma Fornero, la quale fornisce, comunque, un contributo rilevante alla sostenibilità del sistema realizzando una riduzione di spesa in rapporto al PIL che si protrae per circa 30 anni, a partire dal 2012. L’effetto di contenimento (incluse le deindicizzazioni, massacrate dalla Consulta) passa dallo 0,1% del PIL del 2012 a circa 1,4 punti percentuali del 2020. Poi decresce a 0,8 punti intorno al 2030 per annullarsi intorno al 2045.

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