Adesso sappiamo che Italia avesse in testa di offrirci Pier Luigi Bersani nel 2013, quando reclamava che al Quirinale Giorgio Napolitano lo lasciasse libero di fare un governo minoritario “di combattimento”, tutto proiettato a sinistra, conforme del resto alla coalizione con Nichi Vendola proposta agli elettori. Un governo che, sprovvisto però dei numeri per la fiducia al Senato, avrebbe scommesso sulla capacità di guadagnarsi lungo la strada l’appoggio dei grillini antitutto e antitutti.
Bersani aveva in testa un’Italia ancora più tartassata di quella già molto spremuta dal governo tecnico di Mario Monti. Tartassata con il torchio di un articolo della Costituzione, il 53.mo, interpretato dall’ormai e fortunatamente ex segretario del Pd come obbligo di applicare il principio della “progressività” ad ogni tipo d’imposta, e non solo a quella sul reddito. Come avevano inteso invece i costituenti e il costituzionalista Michele Ainis sul Corriere della Sera ha ricordato a Bersani richiamandosi alla testimonianza di Meuccio Ruini, tra i principali artefici della Costituzione.
Nel contestare come anticostituzionale la soppressione della Tasi-ex Imu dalla prima casa di tutti, voluta da Matteo Renzi senza distinzione di reddito e di tipo di abitazione, Bersani per coerenza dovrebbe chiedere l’applicazione della progressività anche per le imposte, per esempio, sui carburanti. Gli automobilisti meno abbienti dovrebbero poter reclamare di pagare la benzina meno degli altri.
Che si fa, a questo punto, al distributore? Si presenta la copia della denuncia dei redditi per farsi applicare lo scaglione di prezzo corrispondente allo scaglione dell’Irpef? O ci si fa imprimere sulla fronte una sigla negli uffici fiscali, come usava scrivere il compianto Cesare Zappulli sul Giornale quarant’anni fa ironizzando sulle fisime della sinistra allora comunista, per pagare tutti i servizi in base al principio che chi più ha, più paga? Neppure George Orwell era riuscito a immaginare tanto.
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La testa al toro di un Bersani furioso con i “ricchi” aiutati da Renzi l’ha infine tagliata il vice ministro dell’Economia e collega di partito Enrico Morando ricordandogli sull’Unità che “chi ha una casa di stralusso è titolare di un altro patrimonio, mobiliare e immobiliare, su cui paga imposte più che doppie, com’è giusto, rispetto a 3 o 4 anni fa”. E poi, in Italia, si fa presto ad essere considerati ricchi, in quanto tali indifendibili e meritevoli di essere ridotti in povertà.
Vedrete che ora il povero Morando sarà incluso nell’elenco, in diffusione sul Fatto, dei membri del governo che ricaveranno benefici personali dalla detassazione delle prime case. Pier Carlo Padoan potrà risparmiare 1.073 euro, Marianna Madia 1.062, Paolo Gentiloni Silveri 1.024, Roberta Pinotti 875, Renzi 797, Dario Franceschini 357 per la sua casa a Ferrara, Angelino Alfano 258 per la sua casa ad Agrigento, Maurizio Martina 325 per la sua casa nel Bergamasco.
Seguiranno presumibilmente gli elenchi dei parlamentari che voteranno a favore della detassazione: di maggioranza e di opposizione, entusiasti o rassegnati, convinti o scettici. Ma sono già stati fatti i conti al capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, che per la sua villa o villetta nei pressi del Santuario del Divino Amore, a Roma, risparmierà 1.477 euro. Lui ora non crede alle coperture della legge di stabilità, ex Finanziaria, ma ciò non gli impedirà certamente di applicarsela appena approvata.
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Ora lo dice anche Roberto Benigni, dopo avervi contribuito spesso con le sue battute, che la polemica politica in Italia si è troppo involgarita o, se preferite, incattivita.
Cedono alla tentazione anche giornalisti di grande e pacata esperienza, di una ironia abrasiva ma abitualmente rispettosa delle persone. E’ il caso di Giampaolo Pansa, che nel suo Bestiario di domenica scorsa, su Libero, è stato lombrosiano con Denis Verdini, trovando cioè nel suo fisico la ragione o la prova di un meritato demerito. Ecco come lo ha descritto ai suoi lettori: “Un tipo alto, massiccio, chioma bianca, curata da un sapiente coiffeur, una bella faccia da imperatore romano della decadenza, il ghigno di chi sembra riflettere su problemi cosmici, mentre sta preparando un’altra delle sue trappole”. E ancora: “Un capobanda”, pur intendendo Pansa per banda, almeno in questo caso, un gruppo di persone in mobilità, impegnate cioè a spostarsi sempre da una parte all’altra, perdendo magari il conto o la cognizione dei punti di partenza e di arrivo. Una cosa comunque Pansa si e gli ha risparmiato: di chiamarlo “macellaio”, come fanno spesso i detrattori di Verdini ricordando gli anni in cui egli commerciava in carni. Non so, francamente, se le vendesse anche al banco, avvolto in un camice. E se le vendesse anche al padre di Matteo Renzi, vista l’insistenza allusiva con la quale gli avversari del presidente del Consiglio parlano e scrivono del papà anche per i rapporti di vecchia amicizia con l’ex coordinatore di Forza Italia.
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Giornata decisamente brutta per Eugenio Scalfari. Al quale chissà se hanno già avuto il coraggio di comunicare che il fiammifero, secondo lui, lanciato da Renzi sulla legna di Bruxelles con la detassazione della prima casa in Italia non ha prodotto nessun incendio. La Commissione Europea è orientata infatti verso il parere favorevole.
Come se questo non bastasse, la nuova Unità di tendenza renziana ha aperto un dibattito su Enrico Berlinguer, che fu carissimo a Scalfari, per appurare se fu davvero un rivoluzionario o, più semplicemente e banalmente, un conservatore.