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Antonio Ingroia, l’insonne romanziere

Pur nell’orrore per la nuova strage a Parigi, dove terroristi islamici sono tornati ad ammazzare in nome del loro Dio, giusto per renderlo ancor meno popolare di quanto già non facciano in altre parti del mondo, mi tocca rioccuparmi, dalle nostre parti, di Antonio Ingroia.

L’ex magistrato antimafia, ora avvocato e aspirante romanziere, non demorde. Egli ha mandato praticamente a quel paese il costituzionalista Michele Ainis, che in un editoriale sul Corriere della Sera aveva deplorato il suo proposito, annunciato dalle colonne di Libero, di rivelare le telefonate fra l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano e il suo ex vice presidente al Consiglio Superiore della Magistratura, ex presidente del Senato ed ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Il quale era indagato, poi rinviato a giudizio, per falsa testimonianza sulle presunte trattative di più di vent’anni fa tra lo Stato e la mafia.

Le registrazioni di quelle telefonate, eseguite “casualmente” sulla linea controllata di Mancino, furono distrutte nel 2013 su ordine, praticamente, della Corte Costituzionale. Alla quale il Quirinale era ricorso contro le resistenze opposte all’incenerimento dalla Procura di Palermo guidata da Francesco Messineo, di cui Ingroia era un “aggiunto” influente, forse troppo influente, secondo valutazioni finite all’esame del Consiglio Superiore della Magistratura.

L’incenerimento non è stato negato da Ingroia, bontà sua, nella risposta all’attacco di Ainis affidata ad una tignosa lettera a Libero. È stata invece contestata la “pretesa” di considerare metaforicamente incenerita anche la memoria del magistrato che aveva potuto legittimamente ascoltare le intercettazioni per motivi professionali, considerandole peraltro irrilevanti, con il suo ufficio, ai fini delle indagini e poi del processo. Cosa, questa, che già doveva bastare e avanzare per accedere alla richiesta di  Napolitano di distruggerle subito, a tutela delle sue prerogative costituzionali di capo dello Stato, senza le dilazioni procedurali reclamate dalla Procura a tutela di imputati i cui avvocati  avrebbero potuto ascoltare i nastri prima della distruzione, e unire la loro memoria a quella di Ingroia, con quali effetti è facile immaginare, visto anche l’uso che dei suoi ricordi ha preannunciato l’allora procuratore aggiunto.

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“Io – ha rivendicato Ingroia – la memoria non la voglio incenerire. La voglio coltivare anche attraverso un romanzo che racconti agli italiani cosa fu la trattativa fra lo Stato e la mafia, dato che si fa di tutto perché l’indicibile trattativa sia cancellata anche dalla memoria degli italiani”. Indicibile fu peraltro l’aggettivo usato per primo nel 2012 dal consigliere giuridico di Napolitano al Quirinale, Loris D’Ambrosio, nella lettera di dimissioni presentate al presidente, e respinte, per le polemiche che lo avevano appena investito avendo tentato, secondo l’accusa, di favorire Mancino a difendersi dalle indagini. Il suo cuore non resse agli attacchi, per cui morì d’infarto.

Questa storia del romanzo, specie con quel titolo -“Caro Giorgio, come stai?”- dal quale lo stesso Ingroia ha detto di essere tentato, è doppiamente inquietante. Innanzitutto essa tradisce la consapevolezza che sia cosa appunto più da romanzo che da processo penale la costosissima ricostruzione ingroiana della presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Che d’altronde si è già tradotta nell’assoluzione, con il rito cosiddetto abbreviato, dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, indicato dagli inquirenti come il promotore della trattativa. Eppure si è appena allestita a Roma una manifestazione per promuovere al ruolo di eroe chi ha preso il posto di Ingroia nella conduzione dell’accusa: il pubblico ministero Nino Di Matteo.

Quella del romanzo è inoltre un’arma, diciamo così, troppo impropria scelta da Ingroia per la sua sfida a “Giorgio”, cioè a Napolitano, e a tutti quelli che secondo lui avrebbero remato contro le sue indagini e il processone in corso a Palermo. Non è certo una sfida coraggiosa,  e degna in quanto tale di rispetto anche da parte dei dissenzienti, quella condotta  al riparo furbesco  di un romanzo. Di cui si può dire, al bisogno, che ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è casuale, cioè non volontaria.

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La consistenza e franchezza del dissenso dagli annunci, o minacce, o pizzini di Ingroia, come a qualcuno sono apparsi, non debbono tuttavia impedire di riconoscergli il merito di centrare a volte il bersaglio. Lo ha fatto, per esempio, con Luciano Violante, che anche a me era sembrato avere colto in fallo l’avvocato rivendicando, diversamente da lui, il merito di avere voluto e saputo dimettersi tempestivamente da magistrato, appena entrato in politica e vinto una cattedra universitaria.

Ingroia, nella replica affidata anch’essa a Libero, ha rinfacciato all’ex presidente della Camera di essere arrivato in Parlamento nel 1979 ed essere uscito dalla magistratura solo nella legislatura successiva, dopo quattro anni, quanto durarono le Camere precedenti per effetto di uno scioglimento anticipato.

Stavolta la  brutta figura l’ha fatta il pur solitamente preciso e severo Violante, che aveva rimproverato a Ingroia di avere tentato nel 2013 di rimanere in magistratura dopo avere partecipato, sia pure inutilmente, alle elezioni scalando persino Palazzo Chigi con la sua “Rivoluzione Civile”, prudentemente declassata ora ad “Azione Civile”.

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