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Boschi, Renzi e Vespa. Chi s’incarta sulla Carta?

Il consueto libro natalizio di Bruno Vespa, edito a quattro mani dalla Mondadori e della Rai, e reclamizzato sapientemente con anticipazioni selezionate per agenzie, quotidiani, settimanali, mensili, notiziari televisivi e radiofonici, salotti d’informazione e quant’altro, ha già fatto quest’anno una vittima illustre fra le “Donne d’Italia” che hanno fatto e fanno la storia o, per le più giovani, la cronaca.

La vittima è l’avvenente e dichiaratamente, orgogliosamente secchiona Maria Elena Boschi, ministra delle Riforme e dei Rapporti col Parlamento, addetta anche al servizio di pronto soccorso del governo, essendo chiamata spesso a sostituire nelle aule parlamentari, ma anche altrove, colleghi in qualche modo incidentati, o comunque impegnati altrove. Soccorso di cui la ministra non si duole per niente nel capitolo dedicatole da Vespa, anche se le costa qualche ora in meno del giù scarso sonno che si concede, studiando di prima mattina, diciamo pure all’alba, le pratiche suppletive a quelle ordinarie.

L’infortunio nel quale Boschi è incorsa, conversando con il conduttore di Porta a Porta, ha avuto peraltro la sfortuna di essere diffuso, attraverso il settimanale Oggi, nello stesso giorno in cui il senatore e ormai anche ex collega di partito Corradino Mineo, uscitone in odio a Matteo Renzi, l’ha colpita di pesanti allusioni, deplorate persino dai grillini, che è tutto dire, sui suoi presunti distorti rapporti con il presidente del Consiglio. Che, subendone imbarazzanti condizionamenti, le sarebbe “subalterno”.

Questo Renzi, come vado spesso sostenendo, è sfacciatamente fortunato nel trovarsi di fronte sempre avversari, fuori e dentro il suo partito, così malaccorti.

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Nel sostenere che, per effetto della riforma che porta ormai il suo nome, il nuovo Senato risulterà nel 2018 non eletto, sia pure con una procedura ancora tutta da definire in un’apposita legge ordinaria, ma nominato dai Consigli regionali, la ministra Boschi ha letteralmente detto ad un Vespa che non ha fatto una piega: “D’altra parte, la prima volta della storia repubblicana fu il presidente della Repubblica a nominare i senatori. Poi via via il nuovo sistema entrerà in funzione”. Sempre che, naturalmente, la riforma costituzionale del bicameralismo verrà ratificata dall’elettorato con il referendum confermativo e le Camere, compreso l’agonizzante Senato di vecchio conio, trovino la voglia e il tempo di approvare la legge elettorale necessaria a realizzare il compromesso trovato fra maggioranza e minoranza del Pd sull’elezione della nuova assemblea di Palazzo Madama da parte dei Consigli regionali tenendo conto delle indicazioni dei cittadini.

Ma il primo Senato della Repubblica fu nominato una tantum nel 1948 dal capo dello Stato, per effetto della terza disposizione transitoria della Costituzione, solo per meno di un terzo dell’assemblea, per occupare 106 dei 343 seggi. Fu così consentito l’accesso straordinario a Palazzo Madama, nell’ordine indicato dalla stessa norma transitoria della carta costituzionale, a quanti erano stati “presidenti del Consiglio dei ministri e di assemblee legislative”, membri “del disciolto Senato”, titolari di “tre elezioni, compresa quella all’Assemblea Costituente”, “dichiarati decaduti nella seduta della Camera dei deputati del 9 novembre 1926” per reazione dei fascisti al ritiro degli oppositori sull’Aventino, e i perseguitati finiti in carcere o altra forma di reclusione per non meno di 5 anni “in seguito a condanna del tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato”.

I 106 senatori di diritto nominati con questi criteri risultarono così suddivisi fra i gruppi parlamentari: 45 al fronte popolare formato da comunisti e socialisti, 20 agli indipendenti, 17 alla Democrazia Cristiana, 13 all’Unità Socialista, 6 al Blocco Nazionale e 5 al Partito Repubblicano.

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Gli altri 237 seggi del primo Senato della Repubblica furono conquistati dai partiti con tanto di voti. In particolare, 131 andarono alla Dc per effetto dei 10.899.640 voti raccolti, pari al 48,11 per cento; 72 al fronte popolare di comunisti e socialisti con 6.969.112 voti, pari al 30,75 per cento; 4 agli indipendenti con 544.039 voti, pari al 2,40 per cento; 10 all’Unità Socialista con 943.219 voti, pari al 4,16 per cento; 7 al Blocco Nazionale con 1.222.419 voti, pari al 5,40 per cento; 6 al Partito Repubblicano con 594.178 voti, pari al 2,62 per cento, cui però se ne aggiunsero 607.792, pari al 2,68 per cento, presi in liste comuni con l’Unità Socialista; 3 al Partito Nazionale Monarchico con 393.051 voti, pari all’1,74 per cento; 2 alla stella alpina (edelweiss) della Volkspartei con 95.406 voti, pari allo 0,42 per cento; 1 al Movimento Sociale con 164.092 voti, pari allo 0,72 per cento, e 1 al Partito Sardo d’Azione con 65.743 voti, pari allo 0,19 voti, che grazie allo statuto speciale dell’isola contarono più dei 65.925 voti, pari allo 0,42 per cento, preso a livello nazionale dal Partito dei Contadini d’Italia e rimasto fuori dal Parlamento.

Rimasero senza seggi, per l’esiguità della loro consistenza elettorale, anche l’Unione dei Movimenti Federalisti con 42,880 voti, pari allo 0,19 per cento; il Movimento Nazionalista per la Democrazia Sociale, con 27.152 voti, pari allo 0,12 per cento, e altre liste ancora minori con 22.108 voti, pari allo 0,10 per cento.

Già agli albori della Repubblica, il 18 aprile 1948, non mancarono quindi partiti velleitari. Rispetto ai quali l’ex pubblico ministero Antonio Ingroia potrebbe inorgoglirsi per i 549.987 voti raccolti con la sua “Rivoluzione Civile” nelle elezioni di due anni fa, pari all’1,79 per cento. Nel 1948, quando mancavano ancora 11 anni alla sua nascita, gli sarebbero bastati per entrare al Senato, e mandare anche qualcuno dei suoi alla Camera. Nel 2013 gli sono bastati solo per rovinare ulteriormente la festa, si fa per dire, al Pd del povero Pier Luigi Bersani. E a spianare la strada, nel Partito Democratico, come reazione alla sconfitta della linea di inseguimento dei grillini, a Matteo Renzi. I casi della vita.

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