Ci sono due modi di abusare di un morto, qualche volta con l’aggravante di esserne stato un familiare.
Un modo è di attribuirgli giudizi, progetti e persino parole inedite, che il defunto purtroppo non può smentire. Il più celebre caso di questo tipo di abuso resta l’intervista postuma di Aldo Moro, non suffragata da alcuna registrazione o testimonianza, in cui Eugenio Scalfari gli attribuì nel 1978 il proposito di portare il Pci al governo con la Dc.
A quanti, compreso il sottoscritto, avevano avuto la possibilità di parlare con Moro prima del suo tragico sequestro ricavandone tutt’altra impressione, venne quanto meno il sospetto – un po’ infelice per l’ormai compianto statista – ch’egli fosse stato reticente o addirittura falso con loro. Ma reticente e falso soprattutto con i gruppi parlamentari democristiani, ai quali Moro aveva parlato prima del suo rapimento per convincerli ad accettare, all’insegna dell’emergenza e della “solidarietà nazionale”, un’intesa col Pci di Enrico Berlinguer rigorosamente limitata all’appoggio esterno ad un governo interamente democristiano presieduto da Giulio Andreotti. Di quel discorso esiste ancora una registrazione toccante, essendo stato l’ultimo da lui pronunciato.
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Un altro modo di abusare di un morto è di attaccare uomini, partiti e addirittura istituzioni in suo nome, nella presunzione di onorarne la memoria e vendicarne torti odiosamente subiti in vita, e persino dopo.
Il più clamoroso caso di questo tipo di abuso è impersonato da Salvatore Borsellino, fratello dell’eroico magistrato Paolo, trucidato con la scorta sotto casa della madre il 19 luglio 1992, meno di due mesi dopo la strage di Capaci, ch’era costata la vita al suo amico e collega Giovanni Falcone.
Costituitosi parte civile anche nel quarto processo sull’assassinio del fratello, in corso davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, Salvatore Borsellino ha pesantemente attaccato i giudici, naturalmente sull’ospitalissimo Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, per avere rinunciato alla testimonianza dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, già programmata per il 14 dicembre nell’ufficio romano del presidente emerito, a Palazzo Giustiniani.
Ancora più duro è stato l’attacco allo stesso Napolitano, colpevole due volte. Innanzitutto di avere convinto, se non intimidito la Corte d’Assise con una lunga, severa e documentata denuncia della inutilità di una sua testimonianza, specie dopo quella resa, sugli stessi temi, quando era ancora al Quirinale, ai giudici del processo in corso a Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella terribile stagione stragista di più di vent’anni fa. Trattativa di cui Paolo Borsellino sarebbe stato messo al corrente da un pentito, e avrebbe contrastato a tal punto da essere ammazzato.
L’altra accusa a Napolitano, mutuata dall’ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia, è di avere costantemente ostacolato prima le indagini e poi i processi sulla presunta trattativa. Eppure si è appena appreso della morbosa, a dir poco, attenzione riservata dagli inquirenti a Napolitano, le cui intercettazioni telefoniche con l’amico e ora imputato Nicola Mancino potrebbero essere state addirittura alterate.
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Di suo, rispetto alle accuse dell’inesauribile Ingroia, il fratello dell’incolpevole Paolo Borsellino ha aggiunto la convinzione che fosse stata la presunta reticenza sui rapporti fra Stato e mafia a procurare a Napolitano nella primavera del 2013 la rielezione a capo dello Stato. E pensare che tutti noi, ingenui e sprovveduti cronisti e analisti politici, oltre agli altrettanto ingenui e sprovveduti parlamentari, ci eravamo convinti di un Napolitano rassegnatosi a quella rielezione, inedita nella storia della Repubblica, per la paralisi istituzionale creata dai partiti. Che si erano rivelati incapaci, nel Parlamento appena eletto, di trovare un successore prima a Mario Monti, a Palazzo Chigi, poi a lui, al Quirinale, avendo già bruciato le candidature di Franco Marini e di Romano Prodi.
A questo punto, più che una minaccia per protesta, come l’ha formulata Salvatore Borsellino, il suo ritiro come parte civile dal processo di Caltanissetta potrebbe ben essere considerato un affare per la Giustizia, con la maiuscola che merita quella amministrata dal compianto fratello Paolo. È un’opinione, non scambiabile, per favore, per un reato.