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Chi festeggia (e chi no) per i droni armati all’Italia

Anche l’Italia potrà armare i propri droni, al pari di altre potenze occidentali, come il Regno Unito. Dopo un lungo iter, il dipartimento di Stato americano ha dato il via libera alla richiesta di Roma, presentata nel 2012, di dotare i suoi due MQ-9 Reaper di missili aria-terra Hellfire, bombe a guida laser e altre munizioni. Un accordo che, per essere formalizzato, attende solo il disco verde del Congresso. Quindici giorni, iniziati mercoledì, in cui il Parlamento d’Oltreatlantico potrà esprimersi sull’opportunità di quella che nei palazzi di Washington viene chiamata foreign military sale, ovvero la cessione di tecnologia bellica a un altro Paese, sebbene alleato. Un “sì” dato quasi per scontato. Poi si aprirà la necessaria fase burocratica e, da allora, tutto sarà nelle mani della Penisola, che deciderà con calma come dotarsi dello strumento. Ma se da un lato l’intesa conta su un largo fronte di sostenitori, dall’altro lascia qualcun altro con l’amaro in bocca.

LA SODDISFAZIONE DEL GOVERNO

A sorridere sono, senza dubbio, Palazzo Chigi e Via XX Settembre. In particolare è stato il ministero della Difesa guidato da Roberta Pinotti a puntare, sin dal proprio insediamento, a una riapertura del dossier. Fonti del dicastero confermano che la causa italiana è stata affrontata, di recente, in tre diversi momenti. A maggio scorso, la titolare della Difesa telefonò al numero uno del Pentagono, Ashton Carter, per rinnovare la richiesta di Roma di poter usufruire dello strumento militare. Alla telefonata seguì una lettera, nella quale il ministro delineò, nel dettaglio, la strategia italiana. Il pressing è proseguito ad ottobre, durante la visita del segretario della Difesa Usa in Italia. È verosimile che fu durante quei colloqui che Via XX Settembre “strappò”, a Washington, un impegno concreto e definitivo per armare i droni italiani.

COSA SI DICE AL MINISTERO DELLA DIFESA

È un gesto di grande amicizia e il riconoscimento del nostro valore di alleati. Oltre agli americani, solo noi e Londra (e lateralmente Parigi, che utilizza in Africa i droni Usa, ndr) siamo dotati di droni armati in ambito Nato“, aggiunge ancora una fonte della Difesa. Nonostante alcuni nodi ancora da sciogliere, come quello del sistema satellitare Muos in Sicilia, Roma ha offerto la propria disponibilità a proseguire la missione in Afghanistan e discute di un maggiore impegno nella coalizione anti Isis in Iraq. Il ministro Pinotti, in un’intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera ha detto: “La richiesta italiana agli americani è stata motivata anche da un sentimento di dignità nell’alleanza. L’abbiamo reiterata perché pensiamo di essere abbastanza adulti per decidere noi come usarli. Non abbiamo bisogno di badanti“.

L’INDUSTRIA AMERICANA

Fin qui l’aspetto politico. Sul versante industriale, invece, sono in primo luogo General Atomics e Lockheed Martin a festeggiare. Per i due colossi americani, si apre un affare dal valore di 129,6 milioni di dollari. Per Gregory Alegy, esperto di cose militari e docente di Storia dell’Aeronautica presso l’Accademia Aeronautica e di Aviation Management all’Università Luiss, “non si tratta di una grande cifra in termini assoluti, ma consistente se si considera che i velivoli italiani sono già predisposti per essere armati“. I Reaper di Roma “hanno già tutto ciò che è hardware, dai punti di aggancio al cablaggio. General Atomics fornirà probabilmente del software, per le interfacce necessarie all’utilizzo. Lockheed Martin, invece, ci venderà l’armamento”.

I PROGETTI EUROPEI

Vista dal Vecchio Continente, invece, l’intesa apre però il varco a qualche considerazione. Sul Corriere della Sera, Paolo Valentino ha ipotizzato che la “cessione di tecnologia necessaria” ad armare i droni possa avere “un risvolto di politica industriale”, perché costituirebbe “un disincentivo a proseguire nei programmi europei” per realizzare degli Uav armati. Secondo il generale Leonardo Tricarico, già capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, oggi presidente della Fondazione Icsa, questo è vero solo in parte. “L’Italia“, spiega a Formiche.net, “volendo, ha la tecnologia e il know how sufficienti per costruirli da sola. Certo, ciò può costituire un ulteriore disincentivo a percorrere questa strada. Ma di fatto c’è una sonnolenza europea e nazionale, sul tema, già da diverso tempo. Ed è un grave errore, perché, Reaper armati a parte, c’è una condivisione generale che i droni saranno al centro della dottrina militare del futuro. Probabilmente lo sono già adesso. Non sviluppare capacità proprie, a prescindere dagli alleati, è profondamente sbagliato“.
Qualcosa, in Europa, si muove, ma forse troppo lentamente. Il 18 maggio scorso, le principali società aerospaziali europee (Airbus Defence and Space, Dassault Aviation e Finmeccanica), hanno accolto “con soddisfazione” l’accordo siglato da Francia, Germania e Italia per l’avvio dello studio di definizione di un nuovo velivolo europeo non pilotato. Secondo la Dichiarazione di Intenti (DoI) firmata dalle tre nazioni, le società aerospaziali effettueranno uno studio, della durata di due anni, per la definizione di un drone di classe Male (Medium Altitude/Long Endurance). A completamento di questa fase, sarà presa la decisione se avviare o meno lo sviluppo e l’acquisizione del sistema. Ma i tempi potrebbero dilatarsi.
Si tratta di un progetto interessante“, sottolinea Alegi, “ma potrebbe essere operativo tra anni. Le nostre esigenze, invece, sono immediate“. Il docente non vede dunque contraddizione tra le due cose. “Una cosa non esclude l’altra. Per questo l’Italia ha fatto bene a chiedere di armare i suoi droni. Il fatto che siano solo due indica che nessuna porta è chiusa. Ma visti i teatri dove siamo impegnati, e quelli in cui potremmo esserlo, abbiamo fatto bene a scegliere un uovo oggi, piuttosto che un’ipotetica gallina domani“.

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