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Clima, ecco le posizioni degli Stati alla conferenza di Parigi

Quasi 200 nazioni si apprestano a incontrarsi a Parigi alla conferenza Onu COP21 per lavorare su un accordo globale che permetta di contrastare il cambiamento climatico e metteranno sul tavolo i propri impegni sulla riduzione delle emissioni responsabili dell’effetto serra. Basterà per salvare il pianeta da conseguenze disastrose che si rifletteranno non solo sull’ambiente ma sull’economia e la società? Il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha confermato che l’Italia si allineerà all’obiettivo dell’Europa (ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 40% entro il 2030 rispetto ai valori del 1990) e farà anche “tutto il possibile affinché il più alto numero di Paesi adotti obiettivi in grado di evitare conseguenze drammatiche. Non parlo solo di economia”, ma anche “del rischio di guerre e di migrazioni bibliche: è necessario che a Parigi si stabilisca un meccanismo vincolante di revisione periodica degli impegni”.

NAZIONI INDUSTRIALIZZATE: GRANDI IMPEGNI, MA NON BASTA

L’obiettivo dell’Unione europea (responsabile di un decimo delle emissioni globali, è la regione del mondo che inquina di più dopo Cina e Usa) è il più ambizioso di tutti, ma già così la possibilità che si limiti l’aumento delle temperature a non più di 2 gradi (soglia minima per evitare il peggio) è di poco superiore al 50%. Inoltre la pressione delle società petrolifere ha permesso di eliminare gli obiettivi vincolanti su rinnovabili e efficienza per i Paesi-membro dal pacchetto Ue 2030. L’Unfccc, l’organismo Onu che presiede la COP, ha dichiarato che per rimanere entro i 2 gradi  l’Ue dovrebbe tagliare le emissioni di CO2 del 60% rispetto al 2010 e il target individuato in sede europea di -40% rispetto al 1990 equivale solo a -27% rispetto al 2010. Il nostro ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti ha promesso che la delegazione italiana a Parigi insisterà per l’inserimento nel testo conclusivo di un “riferimento” ad un obiettivo ancora più ambizioso, il contenimento del riscaldamento globale a 1,5 gradi.

Gli Stati Uniti con Barack Obama si sono impegnati a tagliare le emissioni del 26-28% già nel 2015 rispetto ai livelli del 2005, mentre le emissioni delle centrali elettriche dovranno essere ridotte del 32% entro il 2030 e l’uso delle rinnovabili dovrà arrivare al 20% dell’energy mix per il 2025. Tuttavia il raggiungimento degli obiettivi di Obama dipende anche dall’ok di un Congresso dominato dai Repubblicani e rischia di scontrarsi con continui ricorsi in tribunale, senza contare che Obama non sarà più presidente degli Stati Uniti da gennaio 2017.

Più deboli le promesse del Giappone, quinto maggior responsabile delle emissioni di gas serra nel mondo: il disastro di Fukushima ha forzato il Paese a rivedere completamente la sua strategia energetica e ha riportato in auge l’uso del carbone. Il Giappone ha detto che ridurrà le sue emissioni del 26% nel 2030 rispetto al 2013.

La Russia da parte sua ha promesso di ridurre le sue emissioni del 25-30% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. La crisi ucraina e il rallentamento economico dovuto al calo dei prezzi del petrolio hanno spinto Mosca a mettere le questioni dell’ambiente in secondo piano, nonostante la Russia sia il Paese dove gli effetti del riscaldamento globale sono più evidenti: l’agenzia meteorologica nazionale ha scoperto che nell’ultimo secolo le temperature medie sono salite di 1,3 gradi C in Russia contro +0,8 gradi nel resto del mondo.

Il Canada ha promesso una riduzione delle emissioni inquinanti del 30% nel 2030 rispetto al 2005, ma appare poco interessato per ora ai problemi dell’ambiente: possiede grandi riserve di sabbie bituminose, da cui si estrae il petrolio ma che sono altamente inquinanti, e su cui l’ex premier Stephen Harper ha puntato molto.

LA CHIUSURA DELLA CINA

Un campanello d’allarme arriva dai Paesi emergenti. La Cina ha fatto sapere che le sue emissioni di biossido di carbonio continueranno a crescere fino a raggiugere un picco nel 2030. Altri Paesi in via di sviluppo ritengono che la loro crescita venga prima delle questioni ambientali e potrebbero presto trasformarsi in grandi fonti di inquinamento. “Per questo Parigi è necessaria. I Paesi in via di sviluppo devono ancora crescere molto e questo vuol dire un enorme incremento delle emissioni e ulteriori rischi per il riscaldamento globale. A differenza dei precedenti protocolli sul clima, Parigi si applicherà tanto ai Paesi ricchi quanto a quelli poveri”, commenta The Guardian.

Tuttavia è proprio tra Paesi ricchi e Paesi emergenti che rischia di crearsi una profonda spaccatura. La Cina, che aveva indicato in precedenza un impegno a ridurre le sue emissioni di CO2 del 60-65% rispetto al 2005 entro il 2030, ha fatto sapere che a Parigi non farà alcun negoziato sul clima: “La conferenza di Parigi non ha per oggetto di mettere in piedi nuove proposte, ma di ridurre le differenze (tra i partecipanti) e arrivare a un accordo sulla base delle proposte esistenti”, di dare “impulso politico”. La Cina produce il 25% delle emissioni mondiali di gas serra e il suo colossale consumo di carbone, come il suo ruolo leader tra i paesi emergenti, rende di Pechino il principale protagonista delle discussioni di COP21, tuttavia per la Cina sono i Paesi ricchi che hanno inquinato per primi e che ora devono rimediare: “I loro obblighi devono essere differenziati da quelli dei Paesi in via di sviluppo”.

LE AMBIZIONI DEL BRASILE, I DUBBI DELL’INDIA

Il Brasile è il Paese emergente con i target ambientalisti più ambiziosi (ridurrà le emissioni del 37% nel 2025 rispetto al 2005, porterà le rinnovabili al 45% del suo energy mix contro il 35% dello scorso anno) e potrebbe inserirsi come tramite tra Paesi ricchi e Paesi in via di sviluppo nella conferenza di Parigi. Tuttavia i suoi impegni non sono considerati sufficienti dagli ambientalisti per salvare l’erosione dell’ecosistema dell’Amazzonia.

Dal canto suo l’India conta ancora 300 milioni di persone che vivono senza elettricità e alti tassi di povertà: gli obiettivi ambientalisti sono subordinati allo sviluppo del Paese. L’India ha anche vaste riserve di carbone da sfruttare; tuttavia, si è impegnata a un maggior uso delle rinnovabili.

PERCHE’ PARIGI NON BASTA

Complessivamente, gli impegni annunciati in vista della conferenza di Parigi rappresentano i più consistenti di sempre. Senza le riduzioni annunciate, le temperature globali salirebbero di oltre 4 gradi C entro il 2100: gli impegni di Parigi dovrebbero contenere, realisticamente, l’innalzamento intorno ai 3 gradi. Ma per non valicare la soglia critica dei 2 gradi, servirà uno sforzo ulteriore: lo ha scritto anche l’International Energy Agency (Iea) nel suo “World Energy Outlook”. “L’industria energetica ha bisogno di un segnale chiaro dal summit di Parigi sul clima”, sottolinea il direttore esecutivo dell’agenzia, Fatih Birol. L’Iea ha calcolato che rispettare le promesse inviate all’Onu da oltre 150 Paesi richiederà al settore energetico investimenti per 13.500 miliardi di dollari da qui al 2030, con una media annua di 840 miliardi.

Anche il ministro francese dell’Ambiente Ségolène Royal ha cercato di spronare le nazioni in arrivo a Parigi: gli impegni assunti sono un segnale positivo, ma bisogna fare uno sforzo in più. La Royal chiede di valutare un rincaro dei costi connessi con l’utilizzo dei combustibili fossili, tassando di più ogni tonnellata di CO2 emessa.

CHE COSA CHIEDONO LE IMPRESE ITALIANE

In Italia il mondo delle imprese si è già mobilitato per dare impulso alle iniziative sul clima connesse con il summit di Parigi. Circa 200 aziende grandi, medie e piccole attive nel nostro Paese hanno sottoscritto l’Appello per il clima lanciato dal Consiglio Nazionale della Green Economy. L’Appello, consegnato al ministro dell’Ambiente Galletti, è stato firmato, tra gli altri, da ERG Renew, Poste Italiane, Terna, Gse, Barilla, Carlsberg, BioChemtex, Ferrovie dello Stato, Novamont, Philips Italia, Unilever Italia e Oréal Italia. “Le politiche climatiche”, commenta Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile che supporta le attività del Consiglio Nazionale della Green Economy, “rappresentano oggi non solo una necessità per far fronte a una crisi ambientale già importante che potrebbe diventare drammatica, ma anche un’occasione per rilanciare innovazione e nuovi investimenti, quindi nuove possibilità di occupazione e di sviluppo”.

Ecco che cosa propone l’Appello italiano per un efficace accordo globale sul clima: rafforzare le misure nazionali di mitigazione e adattamento tenendo conto che il nostro Paese è particolarmente esposto agli impatti del cambiamento climatico; adottare a Parigi target legalmente vincolanti, ripartiti tra gli Stati secondo criteri di equità e in grado di limitare l’innalzamento della temperatura al di sotto della “soglia di sicurezza” dei 2 gradi C (visto ch,e secondo il rapporto Unfccc, con i contributi volontari presentati fino a oggi si arriverebbe a un aumento della temperatura di 3 gradi); una seria riforma fiscale che, tramite forme di carbon tax anche associate ad altri sistemi di carbon pricing, sia in grado di attribuire i giusti costi alla CO2, alleggerendo al tempo stesso la pressione fiscale su lavoro e imprese ed eliminando i sussidi dannosi per l’ambiente, a cominciare dai 510 miliardi di dollari di incentivi mondiali alle fonti fossili, da riallocare in chiave green; interventi efficaci sull’efficienza energetica in tutti i settori, a cominciare da mobilità, industria ed edifici; sostenere la crescita delle fonti rinnovabili; sostenere il ruolo strategico dell’agricoltura, sia in termini di mitigazione che di adattamento, e il potenziale positivo dell’eco-innovazione.

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