Una cattiva e una buna notizia dal fronte sempre bislacco della giustizia, almeno quella di rito italiano. Cominciamo dalla cattiva perché vi siamo ormai più abituati, e quella buona, come la rondine, non fa primavera. Tanto più quando non siamo neppure sulla soglia della primavera, ma dell’inverno.
Sia pure come “atto dovuto”, per consentirgli di usare meglio – pensate un po’ – i suoi diritti alla difesa, come se fosse dovuto nei nostri tribunali un trattamento ingiusto, il gioielliere Rodolfo Corazzo è indagato a Milano per “abuso di legittima difesa”.
Il poveretto, come si sa, è stato sequestrato qualche sera fa nella sua villa, a Lucino di Rodano, con la moglie e la figlia di 11 anni da tre rapinatori che lo avevano aspettato sotto casa. In una sparatoria a più mani che ha lasciato tracce ben visibili sulle pareti, nelle porte e nei mobili egli ha dovuto uccidere un delinquente, rivelatosi poi un albanese di 37 anni ergastolano, evaso due volte dal carcere. Ha dovuto farlo per sottrarre se stesso e la famiglia a probabile morte e mettere in fuga gli altri due rapinatori. Che, tanto per non smentirsi, gli hanno sfondato con l’auto della moglie la saracinesca del garage per correre via a piedi, visto che la macchina era ormai inservibile.
Nonostante l’inquietante chiarezza di questa dinamica dei fatti, i sopralluoghi già effettuati, gli interrogatori e la iniziale propensione dichiarata dal pubblico ministero Alberto Nobili, di nome e augurabilmente anche di fatto, a considerare il comportamento del gioielliere “nell’ambito della legittima difesa”, l’indagato si trova sospettato di “abuso”. E ai danni già subiti nella rapina deve aggiungere le spese legali necessarie alla proprie difesa, anziché essere insignito di una croce di guerra.
Manca solo che i due rapinatori scappati e i familiari di quello ucciso si presentino negli uffici giudiziari per chiedere il risarcimento dei danni materiali e morali subiti nell’esercizio del loro mestiere, come i ladri chiamano sfacciatamente la loro attività delinquenziale.
La buona notizia viene dalla Procura di Roma, dove il capo dell’ufficio, Giuseppe Pignatone, ha dimostrato lodevolmente, sia pure in ritardo, che per evitare l’uso troppo spesso indecente – sì, indecente – delle intercettazioni telefoniche o ambientali disposte dall’autorità giudiziaria non occorra ricorrere a nuove leggi: cosa peraltro che da anni governi e maggioranze di vario colore tentano inutilmente di fare, fra le resistente e le proteste di tanti magistrati, e purtroppo anche di tanti giornalisti.
Bastano e avanzano il buon senso e il rispetto vero, non finto, delle leggi esistenti e di almeno due sentenze della Corte di Cassazione, alle quali Pignatone si è richiamato per dare ai suoi sostituti, aggiunti e quant’altro nuove direttive. Nella speranza ch’egli non paghi tanto coraggio perdendo il posto.
In particolare, Pignatone ha ricordato ai suoi sottoposti che non debbono entrare “nelle informative, richieste e provvedimenti” giudiziari relativi alle indagini né brogliacci, cioè sintesi, né virgolettati, e poi anche nastri a disposizione dei legali, di intercettazioni effettuate a carico anche di persone non indagate, e comunque riferibili a sfere privatissime come quelle religiose, sessuali e sanitarie. La cui diffusione non serve –aggiungiamo noi- alla giustizia, quella dei tribunali, ma solo ai processi mediatici, e agli inutili tentativi dei giornali di ridurre le loro progressive e meritate perdite di copie, o addirittura di recuperarne, sbattendo in prima pagina, o anche solo in quelle interne, i mostri di turno.
Le assoluzioni, o i mancati processi per proscioglimento, finiscono poi nei cestini redazionali. O confinate in due righe là dove pochissimi riescono a trovarle, magari con l’aiuto della lente d’ingrandimento.