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La rotta di ritorno degli attentatori di Parigi e i passaporti siriani

Reuters conferma attraverso le proprie fonti che il passaporto rinvenuto addosso all’attentatore che si è fatto saltare in aria nei pressi dello Stade de France, durante gli attacchi di venerdì scorso a Parigi, sarebbe entrato in Europa il 3 ottobre a Leros, in Grecia, su un’imbarcazione che proveniva dalla Turchia con altri 198 rifugiati. Gli investigatori francesi stanno battendo, in collaborazione con l’intelligence macedone e greca, la pista a ritroso: sembra infatti che possa esistere un complice, visto che un agente di viaggio di Leros ha detto agli inquirenti di aver venduto due biglietti a due uomini che si sarebbero prima diretti a Kalymnos (che come Leros si trova vicino alle coste turche), per poi prendere un ferry verso il Pireo e la Grecia continentale. Uno dei due aveva quel passaporto.

Per il momento si sa che il documento arrivato a Leros, intestato a un certo Ahmad Al Mohammad, è stato registrato dalle autorità locali secondo le procedure che l’Unione Europea riserva ai rifugiati, e poiché non c’erano segnalazioni di polizia collegate, all’uomo che lo portava con sé è stato concesso un permesso temporaneo di sei mesi di permanenza in Grecia. In base al visto, però non avrebbe potuto lasciare Corinto senza il permesso della polizia.

La rotta balcanica. In realtà, invece, i funzionari macedoni che hanno parlato con la Reuters raccontano che al Mohammad (o chi aveva quel documento con sé) due giorni dopo aver raggiunto il Pireo, è probabilmente entrato in Serbia dal valico di confine di Presevo, poi una volta attraversato il territorio serbo è stato prima registrato nel campo profughi di Opatovac, in Crozia, e dopo pochi giorni è ripartito verso l’Ungheria. Da lì, dove secondo la polizia croata è rimasto non più di 24 ore, la destinazione più probabile potrebbe essere stata l’Austria. Erano i giorni in cui la Croazia stava scaricando flussi di migranti verso l’Ungheria, e l’Ungheria aveva inviato treni carichi di persone verso Hegyeshalom, cittadina al confine austriaco. Là, secondo molti dei reporter sul posto, i rifugiati erano fatti passare attraverso i confini senza controlli sui documenti.

Uno schiaffo a Orban. A questo punto è molto probabile che quel passaporto sia falso (qualcuno segnala che potrebbe appartenere a un soldato siriano morto mesi fa), ma c’è da studiare molti dettagli: come è entrato? Chi lo portava con sé? Perché?. La circostanza del “potenziale” viaggio balcanico di uno degli attentatori apparentemente entrato nella zona Schengen ─ il trattato che prevede la rimozione dei routinari controlli alle frontiere ─ proprio tramite l’Ungheria, getta un velo di triste ironia sul governo di Budapest. Il primo ministro ungherese Viktor Orban è stato protagonista di un dura presa di posizione nei confronti della crisi migratoria che ha colpito l’Europa negli ultimi mesi. Orban ha scelto di chiudere le proprie frontiere con muri di filo spinato, una decisione che ha suscitato molte critiche, ma che il premier ungherese ha difeso evocando proprio la possibilità che in mezzo a quei profughi ci fossero anche potenziali terroristi.

I controlli non sono efficaci. Il grosso afflusso di migranti negli ultimi mesi, ha reso impossibili e comunque inefficaci i controlli: «Prendiamo le impronte digitali, ma come li controlliamo? Con quale banca dati [facciamo riscontri]? Se non c’è niente su quella persona nelle informazioni che abbiamo ricevuto, o se non è un ricercato dall’Interpol, può andare… Potrebbe essere pure Osama bin Laden rasato», ha detto un alto funzionario della polizia serba, che ha parlato alla Reuters a condizione di anonimato.

I PASSAPORTI FALSI

“Ci sarebbero almeno otto persone che risultano entrate in Serbia tra i migranti della rotta balcanica con lo stesso passaporto intestato a un venticinquenne siriano che vive vicino alla città nordorientale di Idlib, di nome di Ahmad Al Mohammad”. Cioè un documento identico a quello ritrovato accanto al corpo del terrorista/kamikaze dello Stade de France. La notizia è stata riferita dal quotidiano di Belgrado Politika, che ha specificato che di quegli otto passaporti cinque arrivano dalla Siria e tre dall’Iraq. Si riporta, ma è un’informazione che attende ulteriori verifiche.

Tuttavia della facilità con cui si possono ottenere documenti falsi in Siria, si era già occupato il giornalista Harald Doornbos del settimanale olandese Nieuwe Revu, che aveva pagato ad un falsario siriano 750 dollari per ottenere «solo in 40 ore» un passaporto e una carta di identità. I documenti erano entrambi intestati a un fantomatico Malek Ramadan, nome inventato di sana pianta da Doornbos: il giornalista era stato invitato a fornire anche una foto, e per dimostrare la facilità di ottenere ID falsi in Siria, aveva deciso di fornire quella del primo ministro olandese Mark Rutte.

Dall’America. Negli Stati Uniti ci sono stati 31 governatori che hanno rifiutato di accettare rifugiati siriani all’interno dei propri stati: una reazione ai fatti di Parigi che è sembrata scomposta a molti osservatori. Tuttavia tra questi ce n’è uno che ha buone ragioni per mettersi sulla difensiva: si tratta del Kentucky. Nel 2009, un difetto nello screening dei rifugiati iracheni diede il permesso ad entrare negli Stati Uniti a due terroristi legati ad al Qaeda. Secondo un’indagine condotta dalla ABC nel 2013, i due uomini, Waad Ramadan Alwan e Mohanad Shareef Hammadi di stabilirono a Bowling Green, una cittadina di circa sessantamila abitanti poco lontano dal confine meridionale con il Tennesee. I due furono seguiti poi dall’Fbi, che nel 2010 li arrestò dopo averli osservati armeggiare una mitragliatrice pesante di fabbricazione americana e due lancia razzi Stinger. La vicenda portò a una sospensione temporanea dei programmi sui rifugiati. Da notare che i due iracheni erano parte di al Qaeda in Iraq, che è il prodromo strutturale ed ideologico dell’attuale Isis.

SPECULAZIONI

Al di là del report Reuters, va fatta un’osservazione. Perché un jihadista dell’Isis, che rifiuta ogni genere di cittadinanza nazionale, in quanto crede nella sola esistenza dello Stato islamico come comunità globale di tutti i credenti musulmani, dovrebbe uscire di casa con in tasca un passaporto prima di compiere un attentato? Sembra un controsenso, e potrebbe portarsi dietro una pianificazione studiata: cioè, un tentativo di instillare ancora più timore e terrore, e conseguente preclusione e isolamento, all’interno di una tematica caotica come la crisi migratoria.

Far pensare che quei terroristi hanno percorso le rotte dei migranti mette i governi europei sulla difensiva e chiude la possibilità a chi fugge da un inferno di cui lo Stato islamico è invece corresponsabile (insieme al regime siriano) di trovare un porto sicuro. Inoltre, inculca nell’opinione pubblica europea una pregiudiziale cultura del sospetto, della paura, della sfiducia. Anche questa è propaganda, anche questa è una possibile strategia laterale per intestarsi una guerra culturale che cerca proseliti.

Diversi analisti hanno iniziato ad evidenziare che la strategia degli attacchi all’Occidente (o alla Russia, che nell’inquadramento dottrinale jihadista è un “cane infedele” come gli occidentali), sono parte di una strategia più mentale. Il Califfo che ordina di colpire in Francia non cerca di avanzare territorialmente, ma cerca invece, con la scusa della rappresaglia, di stimolare il coinvolgimento di questi governi per farli impantanare nelle sabbie siriane (un pantano fatto di guerra, di divisioni tra l’opinione pubblica, di pregiudizi e esclusioni, di terrore, in grado di logorare una società civile).

La risposta forte arriva nuovamente, in questo momento, dal presidente francese François Hollande, che mentre da un lato non ha timore di aumentare il proprio impegno militare contro il terrorismo, dall’altro annuncia che nei prossimi due anni il suo Paese accoglierà altri 30 mila nuovi rifugiati.

 

(Foto: Twitter)

 


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