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Le fissazioni di Travaglio e Caselli su Mannino

marco travaglio

Giusto per rovinare la festa a Calogero Mannino, appena assolto a Palermo anche dall’accusa di avere svolto un ruolo decisivo per attivare nel 1992 le presunte trattative antistragiste fra lo Stato e la mafia, temendo di essere ucciso come il collega di partito Salvo Lima, il solito Fatto quotidiano ha anticipato con molta evidenza un capitolo dedicato all’ex ministro democristiano in un nuovo libro di uno dei magistrati più noti dell’antimafia: l’ex capo della Procura di Palermo Gian Carlo Caselli. Che in quella veste perseguì tanto ostinatamente quanto inutilmente la condanna dello stesso Mannino per l’ormai  abusatissimo e anomalo reato di concorso esterno in associazione mafiosa: anomalo perché introdotto in modo sostanzialmente surrettizio nella giurisprudenza dalla Corte di Cassazione con la conferma di sentenze emesse in quel senso nei gradi inferiori di giudizio.

Tuttavia Mannino scampò dopo 9 mesi di carcere, 13 di arresti domiciliari e 16 anni di processi, dei quali uno di primo grado, due di appello e due di terzo grado proprio grazie alla Cassazione. Alla quale Caselli non perdona nel suo libro, titolato “Nient’altro che la verità “, di avere cambiato posizione lungo la strada, alzando “l’asticella” del reato e casualmente – si spera abbia voluto sostenere lo stesso Caselli – salvando l’ex ministro. Altrimenti la suprema Corte dovrebbe essere sospettata o addirittura accusata di averlo fatto apposta.

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Nell’impostazione dell’accusa a Mannino, per un po’ confortata – ripeto – dagli ermellini del Palazzaccio di Roma, per condannare un imputato di concorso esterno in associazione mafiosa bastava e avanzava provare ch’egli avesse avuto rapporti in qualche modo collaborativi con mafiosi. Cosa che in Sicilia poteva e può tuttora accadere inconsapevolmente, data la diffusione di quel tipo di criminalità.

Non a caso, fra gli elementi o fatti addotti contro Mannino già in alcune indagini fra Trapani e Sciacca archiviate fra molte polemiche interne alla magistratura, c’era stata la sua partecipazione come testimone alle nozze della figlia di un vecchio segretario di sezione della Dc con un uomo rivelatosi poi mafioso.

Ricordo ancora nitidamente gli insulti di “picciotto” e altro che mi procurai a Milano in una trasmissione televisiva condotta da Gianfranco Funari quando, ospite come direttore del Giorno, contestai che si potesse accusare di mafia Mannino solo per quella circostanza.

L’aggressione fu tale, senza alcun intervento correttivo del conduttore, da me ripetutamente richiamato non foss’altro per il suo ruolo di padrone di casa, che lasciai per protesta lo studio televisivo, in diretta. Scoppiò un putiferio politico e mediatico, che mise in imbarazzo anche l’editore della tv, Silvio Berlusconi, e indusse Funari a scrivermi una lettera di mezze scuse. In particolare, egli mi invitò a tornare in trasmissione nei giorni successivi e spiegò la sua mancanza di riflessi nella puntata controversa del suo show “Mezzogiorno italiano” con il fatto di ritenersi un “giornalaio”, non un giornalista. Gli risposi, sul giornale, chiedendogli che cosa gli avessero mai fatto i giornalai per paragonarvisi. E rifiutai l’invito.

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Seguì il giorno dopo un corsivo di fuoco, sul Popolo, il quotidiano ufficiale della Dc allora guidata da Arnaldo Forlani, scritto dal pungente e compianto direttore Sandro Fontana. Che trovò scandalosa l’irruzione di Funari, con il caso Mannino, in una campagna elettorale in corso.

Non so, francamente, se per il disagio procuratogli da quel corsivo del giornale democristiano, o per quello che gli procurava imprudentemente Funari vantandosi nelle sue trasmissioni di averne ricevuto la solidarietà di fronte alle polemiche sul caso Mannino, l’amico Gianni Letta mi telefonò proponendomi un’ampia intervista con Silvio Berlusconi sui problemi generali dell’editoria televisiva. Un’intervista che gli fornisse l’occasione, rispondendo a una mia domanda, di prendere le distanze dall’accaduto con Funari.

Al netto delle buone intenzioni di Gianni e del comune amico Berlusconi, nel cui gruppo ero stato direttore sino al 1989, considerai la proposta inopportuna. Già immaginavo Funari impancarsi a vittima di un mio abuso professionale, estorcendo a Berlusconi, nel contesto di un’intervista su altri temi, una dissociazione diversa dalle solidarietà private di cui lui si era vantato con il suo pubblico.

Il mio no deluse Gianni e Silvio, ma non avevo scelta. Li invitai a dissociarsi da Funari autonomamente, se l’avessero voluto o comunque ritenuto opportuno. Non ricordo più francamente se lo fecero. Ricordo solo che dopo alcuni anni, incontratolo casualmente d’estate in un bar di Olbia, Funari non mi aveva ancora perdonato “i guai” che gli avevo “combinato”, convinto evidentemente di non esserseli procurati da solo cavalcando maldestramente una vicenda giudiziaria con informazioni a dir poco approssimative.

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Il povero Funari, morto il 12 luglio 2008, non fece in tempo a vedere l’assoluzione definitiva di Mannino dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, arrivata il 14 gennaio 2010. Un’assoluzione consentita, secondo Castelli, dal fatto che la Cassazione pretese, a processo ancora in corso, che fosse necessario dimostrare ciò che l’accusa non era riuscita a provare contro Mannino: “Il ritorno del patto in termini di effetti favorevoli”  per l’imputato. Patto naturalmente mafioso, secondo l’accusa.

Ma la pretesa della Cassazione, per quanto correttiva di precedenti pronunciamenti, era a dir poco ragionevole. Può stupire solo lo stupore – scusate il bisticcio delle parole – di Caselli e dei colleghi abituatisi ad una gestione alquanto discutibile di un reato già acrobatico di suo come quello contestato a Mannino, ma anche a Giulio Andreotti e a tanti altri. Una gestione che aveva indotto la Cassazione a porre appunto un argine.


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