Neppure a Firenze, la città di Dante Alighieri e di Niccolò Machiavelli, che le dicevano, non le mandavano a dire, il presidente della Repubblica ha voluto rinunciare a diplomatizzare in qualche modo l’emergenza terroristica riesplosa in Europa con la strage compiuta a Parigi dalla manovalanza dello Stato Islamico. Che è la versione intellegibile di quello che diplomatici e politici più o meno accorti, persino il presidente francese François Hollande, chiamano Daesh. Un nome peraltro che Sergio Mattarella non ha usato neppure, preferendo parlare di terrorismo e fondamentalismo.
Di quale natura culturale, sociale, religiosa, politica in senso lato sia questo terrorismo che ci tiene sotto scacco il presidente della Repubblica non ritiene opportuno dirlo. L’aggettivo islamico, o islamista, come preferisce Ernesto Galli della Loggia, non è evidentemente consigliabile. Forse per non mettere in imbarazzo l’Islam moderato che non ha la forza o il coraggio di fare la sua parte nel contrasto alla blasfemia di chi uccide gridando che “Allah è grande”. E di chi ripete ignobilmente quel grido in uno stadio turco per contestare un breve silenzio di solidarietà con Parigi e con le vittime della strage, fra cui peraltro non sono mancati musulmani.
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Per fortuna, tuttavia, il capo dello Stato nel discorso pronunciato nella storica Sala dei Cinquecento, che ospitò il Parlamento italiano nella Firenze Capitale di 150 anni fa, dopo Torino e prima di Roma, non ha avuto remore a chiamare “guerra”, sia pure con la formula un po’ riduttiva del “tentativo di guerra”, ciò che l’innominato Stato Islamico sta conducendo: una guerra “globale dalle modalità inedite”, che “sta deturpando l’inizio del nuovo Millennio”, ha detto Mattarella. Una guerra alla quale il presidente francese ha reagito dichiarandone e conducendone un’altra per giusta e naturale reazione. Di cui da qualche parte si è però negata la legittimità per la natura atipica, diciamo così, dell’Isi, o Isis, che è uno Stato di nome e di fatto ma non di diritto, senza accrediti diplomatici e confini ben definiti, ma con postazioni militari e campi di addestramento ben conosciuti, sui quali si stanno rovesciando in questi giorni bombe e missili francesi, russi e americani.
Le guerre insomma sarebbero valide solo se condotte fra Stati registrati e certificati, magari alle Nazioni Unite. Ma anche di questo tipo di guerre certa sinistra italiana, la solita, contesta la legittimità, se mai venisse in mente al governo di Roma di dare una mano davvero agli alleati e vicini francesi, perché lo impedirebbe il famoso articolo 11 della Costituzione. Che in effetti “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, ma consente al tempo stesso l’assunzione e l’espletamento d’impegni internazionali per assicurare la pace quando è compromessa da altri.
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A giocare con le parole, ma su altri versanti, c’è qualcuno che batte davvero tutti. È Diego Della Valle, che ha resistito come le suole delle sue migliori scarpe ai tentativi di Lilli Gruber e di Marco Damilano, a La 7, di fargli dire se intende scendere in politica o no con il suo movimento Noi italiani, per ora di carattere solo solidaristico, come lo definisce lui.
Eppure un uomo di sinistra della lunga esperienza come Massimo D’Alema ha recentemente confidato agli amici, prima di partire per un lungo giro in Africa, la convinzione che proprio Della Valle, se candidato a Palazzo Chigi, possa far perdere le elezioni all’odiato Matteo Renzi e farle vincere al pur diviso e dissestato centrodestra. La cui versione a guida leghista recentemente lanciata dalla Piazza Maggiore di Bologna, pur deflagrata con le bombe di Parigi, viste le contraddittorie reazioni levatesi dal suo interno per valutare la strage e i suoi effetti, sarà replicata il 7 febbraio a Roma, non si sa ancora in quale piazza.
Di unitario il presunto nuovo centrodestra ha appena sfornato, dopo un incontro fra Berlusconi, Meloni e Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico, il giudizio sul governo, “inconsistente -secondo loro – tanto sullo scenario internazionale quanto sulla situazione politica ed economica interna”. Come se fosse più consistente l’aspirante nuovo centrodestra, che tanto per dimostrare la sua lucidità ha scartato, proprio nell’incontro fra i tre leader, l’ipotesi di sostenere la candidatura di Alfio Marchini a sindaco di Roma. Le preferisce evidentemente un’altra destinata, ad occhio e croce, a far giocare praticamente la partita del Campidoglio solo alle squadre del pur malmesso Pd e del movimento grillino.