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Napolitano, Berlinguer e l’Unità

Nella meritoria ricerca di articoli, interviste e lettere per alimentare sull’Unità la discussione sull’eredità di Enrico Berlinguer, vissuto tra pulsioni conservatrici e riformiste, nella convinzione da lui stesso dichiarata di poter guidare un partito di lotta e insieme di governo, il direttore renziano Erasmo D’Angelis ha avuto una grande delusione. Non è riuscito, almeno sinora, ad ottenere la partecipazione diretta di Giorgio Napolitano.

Il presidente emerito della Repubblica ha preferito una partecipazione indiretta e lontana, lasciandosi intervistare a fine ottobre da Simonetta Fiori per la Repubblica, quella naturalmente di carta, fondata dall’amico Eugenio Scalfari. E parlando di Berlinguer, pur evocato nei titoli interni e di prima pagina, il meno possibile. Giusto per dire, da “storico di complemento” appena laureato ad honorem all’Università romana di Tor Vergata, ch’egli  aveva praticato “un riformismo di fatto”, non avendo “mai cessato di ribadire il carattere rivoluzionario del partito”, pur nella “gradualità” voluta da Palmiro Togliatti. Che in effetti, ferito nell’attentato del 14 luglio 1948 davanti ad un ingresso secondario di Montecitorio, aveva lanciato dall’ospedale ai dirigenti e militanti l’invito a “non perdere la testa”, come in qualche piazza si era cominciato a fare contro il governo e la Dc.

Non saltò mai in mente a Berlinguer di pensare o tentare “un nuovo inizio” dopo il riconoscimento, nel 1981, di fronte alla crisi polacca, dell’”esaurimento della fase propulsiva della rivoluzione” comunista. Né venne davvero in mente ai suoi successori davanti al crollo del comunismo con il muro di Berlino, nel 1989. Solo lui, Napolitano, tentò di farlo nel 1990, radunando nel Teatro Capranica, a Roma, comunisti e socialisti. “Però – ha sconsolatamente ricordato il presidente emerito – le forze erano limitate e non riuscirono a influenzare in modo determinante i caratteri del nuovo partito che nasceva dal vecchio tronco del Pci”: quello del simbolo della falce e martello ai piedi di una quercia.

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La ragione addotta da Napolitano per preferire la Repubblica, sempre quella di carta, all’Unità, anch’essa di carta, essendo il Pd tutt’altro che unito, con gente che va via e altra che minaccia di farlo, è la stessa per la quale egli, finito il suo mandato e mezzo al Quirinale, ha scelto il gruppo parlamentare delle Autonomie, piuttosto che quello del Partito Democratico. “Non faccio più politica di partito ancor prima di essere eletto presidente”, ha detto.

D’altronde il Pd nacque, con la fusione fra i resti dei comunisti e della sinistra democristiana, quando Napolitano era già al Quirinale da più di un anno, nel 2007, per cui non ebbe modo di iscriversi. Ebbe solo modo di votarlo, pur bofonchiando spesso, forse, per come era gestito: sicuramente quando l’allora segretario Pier Luigi Bersani, dopo le elezioni politiche del 2013, pretese da lui che gli facesse fare un governo di minoranza, e di scommessa sui grillini. Di minoranza e perfino “di combattimento”.

A indurre Napolitano a parlare di Berlinguer all’Unità non è valso neppure il fatto che ad aprire il dibattito sotto la storica testata comunista sia stato il filosofo Biagio De Giovanni, napoletano come lui e amico. Di cui egli ha tenuto, nell’intervista a Repubblica, a sottolineare la “serietà anche nella sua complessità “, comunque critica verso Berlinguer.

Il direttore del giornale riportato nelle edicole da Matteo Renzi, dopo una pausa imposta dalle procedure fallimentari, ha pertanto dovuto accontentarsi solo di interventi di amici di Napolitano: dallo stesso De Giovanni a Emanuele Macaluso e a Umberto Ranieri. Che sono forse stati, con Berlinguer, più misurati di quanto avrebbe fatto lui se fosse sceso dal gradino dello storico, sia pure “di complemento”, e ne avesse voluto parlare ancora da militante di partito.

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Il fatto è che, salvo il profondo rispetto personale, e la commozione procurata anche a lui dalle circostanze premature e drammatiche della morte, a Napolitano non piaceva Berlinguer. Né lui piaceva a Berlinguer, e tanto meno ai berlingueriani, che lo consideravano un mezzo traditore per l’insistenza con la quale egli perseguiva un rapporto costruttivo con i socialisti, anche quando a guidare il Psi arrivò Bettino Craxi. Che fu, tra i socialisti, sicuramente il più odiato dai comunisti, sia militanti che dirigenti.

Nel 1976,  ben prima quindi della vicenda di Tangentopoli, quando Berlinguer pose come condizione per appoggiare il governo di Andreotti che non ne facessero parte i socialisti, per cui i ministri furono tutti democristiani, Napolitano dissentì fortemente. Egli considerava giustamente, specie nel quadro di una evoluzione anche internazionale del Pci, un gravissimo danno  per la sinistra il vecchio antisocialismo comunista. Un danno che avrebbe in effetti rovinato entrambi gli attori del conflitto: Craxi perdendo prima il potere e poi la vita, i comunisti perdendo l’anima, cioè la cosiddetta identità.

All’errore di Berlinguer del 1976 ne seguì un altro ancora più grave nel 1981, sempre prima di Tangentopoli, anch’esso inutilmente contrastato da Napolitano e così descritto con efficace sintesi da Ranieri sull’Unità: “Mentre si proclamava la prospettiva dell’alternativa”, dopo l’esaurimento della politica di cosiddetta solidarietà nazionale con la Dc, “si accentuava nel corpo del partito una larghissima diffidenza verso i socialisti. Una condotta politica che avrebbe fornito argomenti al Psi per ritornare alla collaborazione con la Dc”. Come in effetti avvenne con più governi, il più lungo e positivo dei quali guidato proprio da Craxi. Che segnò impietosamente la sconfitta politica di Berlinguer, ma anche fisica, secondo una impietosa ricostruzione fattane poi da Piero Fassino.


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