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Perché ci battiamo per un Nuovo Stato. Parla Mosci

Prima uscita pubblica della nuova associazione culturale Il Nuovo Stato. “La Costituzione più bella del mondo? Riforme attuali, riforme possibili”, è il titolo del convegno che si terrà a Roma la prossima settimana, giovedì 26 novembre 2015 dalle ore 9.30-13.30 (Biblioteca Angelica – Roma, Piazza S. Agostino, 8).

Costituzionalisti e studiosi riformisti impegnati da anni a trovare le vie per modernizzare lo Stato Italiano (Giovanni Guzzetta, Giovanni Orsina, Vincenzo Zeno-Zencovich, Stefano Ceccanti, Luca Antonini, Carlo Fusaro, Marco Gervasoni) discuteranno con studiosi e personalità più impegnate politicamente (Luciano Violante, Stefano Caldoro, Giorgio Tonini, Augusto Barbera e Stefano Bruno Galli).

Si tratta della prima iniziativa de Il Nuovo Stato, centro di discussione e studi, nato nell’estate del 2015 su impulso, tra gli altri, di Giorgio Mosci, Raffaella Della Bianca, Mario Barbi, Antonio Pilati, Lodovico Festa, Gian Michele Roberti e Giovanni Battista Pittaluga.

Ma perché è nata Il Nuovo Stato? Quali sono gli obiettivi? Formiche.net lo ha chiesto a Giorgio Mosci, presidente de Il Nuovo Stato: nato nel 1958 a Genova, laurea in Economia, nel 1987 entra a far parte del Gruppo Ernst & Young, di cui diventa Socio nel 1993 e fino al 2013, intraprendendo successivamente la libera professione. Nell’ambito dell’attività di revisione svolge attività di consulenza aziendale strettamente legale alla revisione quali, ad esempio, valutazioni economiche di azienda, assistenza ed organizzazione contabile.

Mettere in piedi un’associazione politico culturale come si presenta Il Nuovo Stato e promuoverla con un primo impegnativo convegno sulle riforme necessarie della Costituzione come quello che avete organizzato, rappresenta uno sforzo consistente. Lei che è il presidente dell’associazione ci può spiegare chi siete e chi avete alle spalle?

Descrivere quello che stiamo promuovendo, quasi come un sussulto di una certa società civile e di alcune aree culturali un po’ stanche ma non del tutto arrese, potrebbe far sorridere chi cerca sempre il “che cosa c’è dietro”. Eppure è quel che è avvenuto. L’associazione nasce innanzi tutto dalla convergenza di diverse insoddisfazioni: credo che sia molto importante (ed è comunque l’esperienza che conosco direttamente) quella ligure-genovese. Si tratta della preoccupazione di una società ancora ricca di intelligenze e risorse ma che sta invecchiando e che ha un rapporto sempre più difficile con la politica “sperimenta” direttamente: ora un po’ troppo criccaiola, ora dilettantesca, ora puramente protestaria. Io sono un commercialista che nella mia Genova ho un solido rapporto con la comunità economica e con i luoghi storici della storia cittadina, a iniziare dai suoi tradizionali circoli. Sono profondamente convinto che una persona in pace con la propria coscienza non possa vivere solo di affari e in questo senso da sempre sono impegnato nella mia comunità civile, dedico molta passione a una casa editrice, Il Canneto, che vuole testimoniare l’importanza della cultura nella vita degli uomini. Ho creduto che fosse necessario mobilitarmi in una lista come Scelta civica nel 2013. E poi nella primavera del 2015 con persone di cui ho stima innanzi tutto come Raffaella Della Bianca e il professor Giovanni Battista Pittaluga ho ritenuto che fosse necessario impegnarsi in un nuovo tentativo: un’associazione che lavorasse “culturalmente” per la riforma dello Stato italiano.

Come è arrivato a questa conclusione?

E’ evidente a tutti come la politica italiana sia oggi in difficoltà: qualunque giudizio si dia del dinamismo del governo Renzi (senza dubbio encomiabile in diversi settori), non si può non notare che assieme crescano disgregazione istituzionale (si considerino solo i casi più recenti di Roma e Campania), protesta incancrenita e senza sbocchi (con alcuni sondaggi che affidano a questa protesta un’eventuale guida dell’Italia) con tanti nodi istituzionali di fondo (dalle Regioni ai rapporti con l’Unione europea) da affrontare urgentemente con vera volontà riformatrice. Partendo dalla mia esperienza genovese, dunque, ho incontrato interlocutori come quelli raccolti intorno ad Antonio Pilati a Roma, persone da tempo impegnate nella riflessione sulla riforma della Costituzione (da Mario Barbi a Gian Michele Roberti) e a Lodovico Festa a Milano, con professionisti della comunicazione come Claudio Rossetti e giornalisti come Gianfranco Fabi, espressione di una città vitale che dopo alcuni brutti periodi mi pare si stia pacificando con se stessa. Per diverse vie siamo arrivati insieme a questa conclusione: il principale problema italiano è la crisi del suo Stato e questa non può essere affrontata solo con la politica e tanto meno solo affidandosi alle esigenze tattiche della politica. Ci vuole un articolato e prolungato sforzo culturale.

Semplice a dirsi e a farsi?

A farsi è di una tremenda difficoltà. Non hai né piaceri da scambiare né posti da promettere, e neanche promesse di soluzioni salvifiche da realizzare in quattro e quattr’otto (e da urlare in qualche discussione televisiva). In queste condizioni devi esclusivamente costruire sulla base della sensibilità di chi si rende conto delle difficoltà generali della nostra società e vuole spendere un po’ del suo tempo nella riflessione e nella discussione: ma senza neanche la meta poi di fare un partito e farsi eleggere. Nonostante questa consistente difficoltà quando riusciamo a spiegarci, incontriamo subito una interessante disponibilità: non siamo insomma dei marziani, la coscienza di una situazione di difficoltà strutturale per il nostro Paese è diffusa e in più di un caso, per fortuna anche tra diversi giovani colti, si trasforma in impegno. Il convegno che organizziamo giovedì 26 novembre è la prima sfida che affrontiamo in questo senso, poi proseguiremo alternando un’attività quasi da centro studi (il rapporto tra questioni concrete nel rapporto con gli elementi della crisi strutturale del nostro Stato) a un’attività di dibattiti. Dovremo dotarci di un sito internet, e avendo tra di noi più di un giornalista, non siamo indifferenti –quando le condizioni lo permetteranno- all’obiettivo di dar vita a un qualche tipo di giornale on line.

Ma non andate, come si dice, un po’ dietro a delle farfalle?

Prenda anche l’introduzione alla recente riforma costituzionale del Senato, così c’è scritto: “La cronica debolezza degli esecutivi nell’attuazione del piano di governo, la lentezza e farraginosità dei procedimenti legislativi, il ricorso eccessivo alla decretazione d’urgenza e l’emergere della prassi della questione di fiducia su maxi emendamenti, l’alterazione della gerarchia delle fonti del diritto e la crescente entropia normativa, le difficoltà di attuazione di una legislazione alluvionale è troppo instabile e confusa, l’elevata conflittualità tra i diversi livelli di governo : sono questi solo alcuni dei sintomi della patologia che affligge il sistema istituzionale italiano da troppi anni e per la cui rimozione sono necessari profondi interventi di riforma”. Portando a termine una riforma che comunque la si giudichi è radicale, si ammette alla fine che sono “ancora” necessari profondi interventi di riforma. E in questo senso, leggo ancora il testo che accompagna “la riforma del Senato” che ” Il ripensamento dell’assetto dei pubblici poteri costituisce , infatti, la premessa necessaria per dimostrare l’effettiva capacità del Paese di rinnovarsi profondamente , per elevare la qualità della vita democratica , ricostruire il rapporto di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e rafforzare la credibilità dell’Italia nello scenario europeo ed internazionale”. Insomma il governo delinea con chiarezza un processo che è iniziato ed è ben lungi dall’essere concluso.

Bé, appunto c’è un governo del fare perché immischiarsi: non si può lasciar lavorare il manovratore?

Io comprendo le ragioni di chi ha voluto accelerazioni e rotture rispetto a una certa inerzia nella revisione di elementi rilevanti della Costituzione. Però la nostra Carta magari era bloccata in alcuni suoi ordinamenti fondamentali ma nasceva con una visione sufficientemente meditata e organica, oggi si ha l’impressione che le forzature non siano accompagnate da una riflessione innanzi tutto culturale adeguatamente articolata: si fa il Senato delle Regioni in una fase in cui queste istituzioni che divengono “domini” della seconda Camera (pur depotenziata), sono in evidente crisi. Basta per risolvere questo problema diminuirne il numero secondo una logica centrata sul taglio dei costi? La discussione sulle competenze tra “centro” dello Stato ed enti del territorio non richiede una riflessione molto più specifica e argomentata, magari partendo dallo scarso successo che stanno dimostrando le “nuove” province e le “nuove” città metropolitane? Basta quella rapida norma sull’elezione del presidente della Repubblica di cui si allarga il quorum degli elettori istituzionali necessari a nominarlo, per chiudere una riflessione che ha visto numerosi spunti polemici (non sempre condivisibili da parte mia, ma che registrano la difficoltà di un’istituzione) sull’operato del Qurinale?

Ma affrontando i temi istituzionali con questo approccio, non finite per assommarvi al fronte conservatore che vuole che niente si muova?

Ma è proprio il nostro approccio culturale che si distingue sia dal fronte dei costituzionalisti ultraconservatori sia dallo schieramento dei politici tattici che usano i temi istituzionali per condizionare le partite pratiche della politica a partire da quelle di potere (grande ma talvolta anche molto piccolo, che sia). Ponendo il tema di una nuova cultura costituente che sia all’altezza della crisi manifesta di alcuni ordinamenti fondamentali della vecchia Carta, noi ci collochiamo fuori dagli scontri immediatamente politici per aiutare a superarli con la qualità invece che con la pura forza dei numeri (siano elettori o parlamentari acquisiti).

E questo sforzo sarebbe per di più bipartisan?

Nell’associazione l’unica clausola statutaria riguarda gli eletti in assemblee democratiche che non possono essere accettati come soci e se soci, si sospenderanno: questa scelta è ben lungi dall’essere influenzata da un certo diffuso clima antipolitico pur esistente. Nasce al contrario da una grande considerazione per chi si assume funzioni di rappresentanza dei cittadini a qualsiasi livello dello Stato: è questo un compito difficile e prezioso che per essere svolto richiede molte energie e anche di poter contare su una cultura non preventivamente schierata che aiuti a svolgere i compiti del legislatore o dell’amministratore pubblico. In questo senso noi non siamo schierati e anche concretamente ne “Il Nuovo Stato” vi sono persone che votano, fanno o hanno fatto politica, sono stati eletti i(e magari saranno eletti in futuro) in partiti di centro, di destra o di sinistra ma che sono disponibili oggi a un lavoro culturale “non schierato”.

C’è in questa vostra scelta un’implicita critica agli eccessi di polarizzazione politica?

Distinguiamo il mio temperamento moderato che apprezza assai poco qualsiasi eccesso dalle riflessioni sistemiche di cui discutiamo anche nella nostra associazione: l’osservazione di chi dice che la democrazia americana è particolarmente forte (e di conseguenza diventa forte lo Stato che questa esprime) perché consente la convivenza di agitatori come Donald Trump con figure dell’establishment come Jeb Bush, di “socialisti” come Bernie Sanders con statisti come Hillary Clinton non mi pare infondata. Poi vi sono i periodi d’emergenza in cui un centro deve raccogliere tutte le forze in grado di assumersi responsabilità di governo: così nelle ripetute grandi coalizioni tedesche o così per quaranta anni con la Dc che ha guidato l’Italia verso il progresso. Ma ragionando su uno Stato che funzioni fuori dall’emergenza (o dalla guerra anche solo fredda) credo che cercare di non separare radicalmente moderati da radicali a destra come a sinistra possa essere un’esigenza fisiologica

In questo senso anche il vostro assetto bipartisan risponde a una logica di emergenza?

Come dicevo la ricerca culturale va distinta dalla battaglia politica, ma che nel lavorare insieme di persone di indirizzo politico seriamente divergente, vi sia anche la consapevolezza della difficoltà del momento, senza dubbio è un fatto.



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