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Salvini, Trump e i moderati Jeb Bush-Hillary Clinton

Assistendo a quel meraviglioso spettacolo di democrazia che sono le primarie americane dove ogni candidato è sottoposto a un esame impietoso sulle proprie capacità personali e sui propri valori e comportamenti etici, dove ogni “issue” (compreso quello un po’ fuori moda oggi dalle nostre parti, degli -un tempo- definiti “valori non negoziabili”) è esaminato fino alle sue radici, viene proprio da piangere sulle nostre diatribe fatte di tanti tweet e troppi ricatti ai parlamentari (guarda che se non voti così, sciolgo le camere e tu non sarai rieletto).

Particolare elemento di fragilità poi è l’idea che il nostro stato debba essere guidato da un centro depotenziato nella visone quanto consolidato nell’uso di un comando extra parlamentare, grazie al protettorato che sull’esecutivo esercitano vari poteri neutri e sistemi di influenza internazionale.

Per avere una rappresentazione plastica delle differenze tra un grande sistema democratico come quello americano e la nostra ennesima rivoluzione passiva, basta considerare una figura come quella di Donald Trump. Nessuno può negare che le esagerazioni abbondino nelle parole del miliardario newyorkese: però a nessun repubblicano verrebbe in mente di cacciarlo a pedate e, simmetricamente, di pensare a una lista di “moderati” Jeb Bush-Hillary Clinton.

La necessità di tenere insieme moderati e radicali nei diversi schieramenti non è negli Stati Uniti solamente e neanche principalmente una questione di opportunismo politico, bensì di coscienza degli interessi nazionali.

Ci si consenta di fare una passetto indietro di qualche centinaio di secoli. In pieno Cinquecento Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini discutono proprio di questo problema. Scrive il segretario fiorentino nei suoi Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio: “Volendo Roma levare le  cagioni de’ tumulti, levava ancora le cagioni dell’ampliare” E invece bisognava “ dare luogo a’ tumulti e alle dissensioni universali, il meglio che si può” perché “se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi maneggiare a tuo modo”. Ecco il nodo del problema: avere una costituzione che consenta al popolo di esprimere anche “dissensioni universali”, rendersi conto che uno stato dai grandi obiettivi non può crescere se pensi di poter maneggiare il popolo “a tuo modo”.

E che cosa gli risponde il fine diplomatico-storico papalin-fiorentino? “Laudare la disunione è come laudare in uno infermo la infermità”. Basta con le divisioni, viva i partiti della Nazione!

Dietro al programma machiavelliano c’è ancora l’ambizione di fare dell’Italia un grande stato nazionale. Dietro a Guicciardini c’è la resa ai grandi poteri dominanti (in particolare in quel periodo a quello di Carlo V) e il consiglio agli italiani di curarsi del proprio particolare.

Ognuno scelga un po’ come gli pare: anche arrendersi può essere un segno di intelligenza in certe circostanze. Ormai i poteri nazionali non hanno più futuro, la politica va sostituita dalla tecnica, siamo alle soglie grazie ai vari trattati di libero scambio al rilancio di un grande impero globale a guida americana che medierà automaticamente i conflitti: le argomentazioni pro-resa, sono diverse e spesso non prive di ragionevolezza.

L’importante è non imbrogliare troppo: dire che non ci sono alternative  è un argomento se vero, decisivo, terribile ma serio. Descrivere, per esempio, l’attuale esecutivo come la forza che fa risorgere l’Italia è peggio che sbagliato, è ridicolo. Per capire le dinamiche del governo italiano bisogna ragionare sul regno di Gioacchino Murat a Napoli: ottime riforme, scelte che hanno segnato (e migliorato) la città nei secoli seguenti, mobilitazione di intelligenze, ma la forza di Murat non poggiava né sul popolo napoletano né su risorse comunque proprie (su una propria “virtù”), bensì si esprimeva con una guida “dall’alto” fondata “sul fuori” cioè al fondo interamente sulle fortune di Napoleone Bonaparte.

E in questo senso la prima cosa da capire è se i Napoleoni che oggi reggono i “Renzi” costituiscano la base per un’adeguata scommessa sul futuro. Avendo coscienza peraltro (rubiamo questa citazione al “Principe”) che come scrive Tacito negli Annales: “quod nihil sit tam infirmum aut instabile, quam fama potentiae non sua vi nixa”(Che nulla è più debole e instabile che la fama di potenza non basata su forza propria).

Se invece si pensa che c’è la possibilità che il futuro dei vari Napoleoni sia troppo confuso, che vi è ancora spazio per avere ancora una forza propria, magari in un’Europa seriamente confederale non pasticciatamente unita da una confusa egemonia tedesca, allora bisognerà inevitabilmente integrare anche quella fetta di popolo (tumultuosa ma indispensabile) rappresentata a destra dai Trump e dai Salvini, a sinistra dai Sanders, dagli Tsipras, dai Corbyn.


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