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Tutti i rischi per Erdogan dopo la vittoria in Turchia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Le ultime elezioni avvenute in Turchia il primo novembre scorso hanno conferito un imprevisto successo al partito Akp di Recep Tayyip Erdogan. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’Akp di Erdogan e del premier uscente Ahmet Davutoglu, già ministro degli Esteri, è una organizzazione complessa. Oggi, ha vinto con 317 su 550, e un incremento di circa il 9% rispetto alle elezioni del 7 giugno scorso. Il Partito del Movimento Nazionalista Mhp è arrivato a 40 deputati e all’11,9% dei voti, perdendo 4 punti percentuali e quasi 40 seggi, mentre il nuovo Partito Curdo, che prende i voti del suo popolo (che è di origine iranica, comunque) e quelli dei ragazzi di “Gezy Park”, il partito erede del kemalismo, nazionale e laicista Chp, Partito Nazionale Repubblicano, è ancora attestato sui suoi 134 seggi, il 25,3% dei voti.

Un panorama politico che allontana la paura di un crollo dell’Akp, che sarebbe certamente anche una implosione del sistema politico turco, ma non ridimensiona il tradizionale frazionismo politico della società curda, dove la separazione tra città e campagna, nazione e regione, borghesia periferiche e centrali, non saranno certamente silenziati dalla vittoria di un partito islamista “moderato” come l’Akp di Davutoglu-Erdogan. Pressione clientelare sul voto? Certo. Finanziamenti sauditi? E’ anch’esso indubitabile, fonti dell’intelligence israeliana certificano che i fondi di Riyadh all’Akp, per le ultime elezioni, sono dell’ordine dei 17 miliardi di dollari. Finanziamenti di altri ancora? E’ probabile, nel quadro dei rapporti incrociati tra poteri che si confrontano in un’area nella quale nessuna gerarchia dei poteri è ancora definita.

La Federazione Russa non ha alcuna simpatia per Erdogan, ma non può certo fare a meno di una Turchia stabile e, per quel che occorre, non nemica.
E’ nota la battuta di Vladimir Putin, l’agosto scorso, all’ambasciatore di Ankara a Mosca, Umit Yardin: “Dica al suo presidente dittatore che può andare al diavolo lui e i suoi terroristi dell’Isis, farò della Siria una grande Stalingrado per lui!”. Il 6 novembre un aereo russo ha, a detta delle autorità turche, violato lo spazio aereo di Ankara, ma certamente queste, per la politica di Mosca in Siria, sono cose del tutto irrilevanti.

Certamente Mosca vuole una Turchia al tavolo delle trattative dopo aver “sopito e sedato”, per dirla con Alessandro Manzoni, ogni forma di jihadismo in Siria. Successivamente la Federazione Russa creerà una sorta di “gruppo di contatto” sulla nuova Siria de-jihadizzata, tavolo al quale siederanno l’Iran, la Cina, l’Ue, gli Usa, la Turchia e, probabilmente, l’Egitto.
Il punto di partenza dell’Akp, però, che nasce nella sua attuale configurazione nel 2001, è la frazione non- filojihadista dell’islamico Partito della Virtù, giudicato incostituzionale dalla Prima Corte turca nel dicembre 1998 e poi disciolto forzatamente dalla suaccennata Corte Costituzionale di Ankara nel giugno 2001.

Dopo la chiusura d’imperio, il Partito della Virtù si scompone in due gruppi, l’Akp, appunto, e il più coranico e tradizionalista Partito della Felicità.
In tutte queste mosse, non è difficile immaginare un ruolo specifico dell’Arabia Saudita, interessata ad un attrito con l’Iran e alla politica panturanica e etnonazionalista di Ankara che, fin dall’inizio, si prefigura con il governo Akp.
E’ facile immaginare che, così come il passaggio politico degli anni ’90 è stato una cesura per l’Italia ed altri Paesi-cerniera tra le varie aree di influenza, i sauditi abbiano progettato una serie di regime change nella loro area sunnita, tra i quali la Turchia e, naturalmente, l’Egitto e il sistema degli Emirati.

La islamizzazione, sia pure “moderata”, secondo lo stanco linguaggio occidentale, riveste il progetto antico del panturanesimo turco, dall’Anatolia fino al Lago Bakhtash, nella Manciuria settentrionale, luogo di origine delle popolazioni prototurche e area confinante con il Turkmenistan cinese attuale.
Una ideologia da “giovani turchi”, che laicizzarono Istanbul, ritradotta nel gergo, stanco e banale, del “moderatismo”, volontario o obbligatorio, della Turchia degli anni 2000.

Il punto di rottura del sistema politico dell’Akp rispetto alla tradizione dei tanti partiti paraislamisti più o meno modernizzanti è la distruzione sistematica della società segreta Ergenekon, che inizia nel 2009 e riguarda una struttura politico-militare coperta che si pone come protettrice dell’identità nazionale etnica e storico-politica, sulla linea dei “giovani turchi” e di Kemal Atatürk, contro ad una islamizzazione che riporti la Turchia in un pericoloso fronte binario Iran-Arabia Saudita, con gli alevi turchi che “fanno il tifo” per Teheran.

Stiamo parlando della seconda forza militare dell’Alleanza Atlantica. In Turchia, e forse per ragioni similari, viene distrutto un apparato di “Stato profondo”, che sopravvive alla Guerra fredda, come poi accade, più o meno negli stessi anni, in un’altra area di confine della Nato, l’Italia.
E’ il divide infraislamico che si delinea dopo la rivoluzione sciita del 1979, nel quale, teorizzavano quelli di Ergenekon, dal nome di un monte della catena degli Altai, Ankara avrebbe perso ogni autonomia e ogni futura egemonia asiatica.

La Turchia della tradizione kemalista è quella dell’identità nazionale profonda, con o senza società segrete, e anche l’islamismo “moderato” di Erdogan dovrà farci i conti, o nazionalizzando e etnicizzando il suo sunnismo o andando ad un accordo con i partiti politici che si richiamano a quella tradizione.
Senza di essa, c’è solo il grande califfato abbaside, mito pericolosamente vicino a quello dell’Isis. E, peraltro, è bene ricordarlo, gli “alevi”, gli alawiti turchi dell’Anatolia, sono tra gli otto e i quindici milioni, e la tensione tra questo gruppo, ormai del tutto filo-sciita, e il partito di Erdogan, anche nelle ultime elezioni, è salita alle stelle.

O Erdogan, di nuovo al potere, rafforza la sua pressione contro curdi e alevi, o i suoi sostenitori dentro e fuori dalla Turchia, che comandano il ciclo economico turco, lo metteranno prima o poi alle strette. Ma se Erdogan crea questa tensione, sarà sempre più difficile per lui governare, e molti intingeranno il dito nel futuro caos turco.
La vittoria dell’Akp attuale vuole dire che abbiamo una grande potenza militare Nato sotto tutela dell’area sunnita del Grande Medio Oriente e, se accadrà qualcosa di irreparabile, il regime “della Giustizia e dello Sviluppo” obbedirà a Sud, non ad Ovest.

La lotta tra la setta coperta, una sorta di Stato Profondo, e il regime di Erdogan è quindi il vero punto di rottura tra il regime dell’Akp e il recente passato turco. D’altra parte, la finalità delle operazioni di Ergenekon era proprio quella di organizzare un golpe contro il governo dell’Akp.
I curdi, altro problema difficile per il nuovo parlamento dominato, ma senza la possibilità di modificare la Costituzione, dall’Akp di Davutoglu-Erdogan.
Il Partito Democratico del Popolo, la formazione curda che ha avuto un buon successo alle ultime elezioni, è una via di mezzo tra la Syriza greca e il vecchi partiti nazionali, identitari e socialisti del Kurdistan.

A parte la pressione autoritaria del governo Akp durante le elezioni, la situazione è quella, oggi, che si presentava nel 2011. Se Erdogan non trasforma la Costituzione con la collaborazione delle attuali opposizioni, che gli chiederanno un prezzo, non potrà andare né verso l’Ue, naturale retroterra per evitare il disastro islamista, né andare credibilmente verso il proprio progetto panturanico di egemonia, almeno parziale, in Asia Centrale.
Vedremo come Erdogan e Davutoglu, nei prossimi giorni, gestiranno questo che è, intuitivamente, il porro unum et necessarium della geopolitica turca attuale.

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