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Vi racconto un paio di cosette su Enrico Berlinguer

Antonio Bassolino, già sindaco di Napoli e presidente della regione Campania, in procinto di ricandidarsi l’anno prossimo alla guida della città partenopea, è stato l’unico a dare un’immagine né mitica né banale di Enrico Berlinguer intervenendo nel dibattito aperto dall’Unità sul segretario comunista. Di cui è ancora esposta la foto in tante sezioni del Pd, ultima versione del Pci da lui guidato dal 1972 al 1984, quando morì a soli 62 anni in circostanze drammatiche, colto da ictus mentre teneva un comizio a Padova per le elezioni europee.

Bassolino ha ricordato il leader comunista che nell’autunno del 1980, nelle campagne irpine colpite dal terremoto e raggiunte a fatica da soccorsi ancora troppo improvvisati e male organizzati, “camminava come Cristo tra i contadini senza casa, con il cappotto grigio addosso e la sigaretta in bocca”.

Fu proprio in quel torrido autunno che Berlinguer, secondo il racconto di Bassolino, maturò le sue ultime, sconsolate riflessioni sulla fine, intervenuta all’inizio di quell’anno, dell’esperienza parlamentare di collaborazione con la Dc all’insegna non tanto del “compromesso storico”, da lui stesso teorizzato e proposto allo scudo crociato, quanto di una più limitata e breve “solidarietà nazionale”. Che fu imposta da due emergenze: quella terroristica ed economica e quella dei risultati paralizzanti delle elezioni politiche del 1976, conclusesi – come disse Aldo Moro – “con due vincitori”, la stessa Dc e il Pci, privi però di alleati in grado numericamente e politicamente di farli governare l’uno contro l’altro, nell’alternatività che pur derivava dalla loro collocazione elettorale. Ed era reclamata dalle rispettive basi militanti.

Era nata da quella situazione eccezionale, e dall’antica diffidenza, a dir poco, dei comunisti verso i socialisti, o viceversa, come si preferiva credere o dire alle Botteghe Oscure, la decisione di Berlinguer di appoggiare prima con l’astensione e poi con un vero e proprio voto di fiducia, concordato in una lunga trattativa condotta per la Dc da Moro, un governo di soli democristiani presieduto da Giulio Andreotti. Ma la tragica fine di Moro, sequestrato e ucciso dalle Brigate rosse anche per la linea di una dura fermezza imposta dal Pci di fronte alle richieste o ai tentativi di negoziare la liberazione dell’ostaggio eccellente, aveva irreparabilmente rovinato tutto.

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Fu tra le rovine e gli sfollati di quell’autunno che Berlinguer maturò l’altra, contraddittoria svolta politica della sua vita. Che chiamò “alternativa”. Contraddittoria anche perché, come ha onestamente riconosciuto Bassolino, si basava sulla presunzione di potersi proporre contro la Dc contando ancora su “pezzi” della stessa Dc, senza tener conto – anche se questo Bassolino non lo ha detto – dell’agilità, dell’autonomia, del moderno riformismo e della capacità di Bettino Craxi, alla guida del Psi, di comporre alleanze di governo più compatibili con il quadro internazionale allora esistente, e con i relativi equilibri.

Di questo ritorno alla politica di lotta più che di governo, di alternativa più che di compromesso, storico o non storico che fosse, Berlinguer cercò di non rimanere del tutto prigioniero. Sarebbe disonesto non riconoscerglielo.

Già spintosi durante l’esperienza della maggioranza di “solidarietà nazionale”, fra le proteste minacciose del Cremlino, a dichiararsi “più sicuro”, cioè più garantito, sotto l’ombrello dell’alleanza atlantica, Berlinguer alla fine del 1981 arrivò a proclamare davanti alle telecamere di Tribuna Politica il famoso “esaurimento della fase propulsiva della rivoluzione d’ottobre” del 1917. Che pure era stata “il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca”, rivendicò orgogliosamente il segretario del Pci.

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Sulle circostanze, e sul significato politico e umano, di quell’annuncio, seguito alla decisione del generale Jaruzelski di prevenire l’invasione sovietica della Polonia riportandola all’ortodossia moscovita con un proprio governo militare, mentre il Papa polacco Giovanni Paolo II vigilava con apprensione dal Vaticano, mi sia consentito un ricordo personale, forse utile a chi non ha vissuto quegli eventi e vorrebbe capirli meglio.

Berlinguer arrivò all’appuntamento televisivo visibilmente stanco e tirato, più triste del solito. Ma ancora più tirato era il suo aitante portavoce Tonino Tatò, chiamato scherzosamente ma non troppo da noi giornalisti “la Suor Pasqualina” delle Botteghe Oscure per il controllo devoto e insieme autoritario che aveva del segretario comunista, come la vera Suor Pasqualina in Vaticano con Pio XII ai suoi tempi.

Tatò, sapendo che la prima domanda sarebbe toccata a me, che rappresentavo il Giornale diretto da Indro Montanelli, mi salutò e guardò con una stranissima aria, mista di sfida e di  supplica. Ma io certo non volevo e non potevo fargli sconti, per cui a “gamba tesa”, come avrebbe poi scritto un giornalista dell’Unità, chiesi a Berlinguer come potessero conciliarsi i fatti polacchi con la democrazia da lui teorizzata.

Man mano che il segretario del Pci rispondeva, cercando con calma, e con quell’inconfondibile accento sardo, le parole adatte alla “chiusura” di quella che lui chiamò una “fase” storica, Tatò impallidiva e abbassava lo sguardo. Se avesse potuto avere i miei piedi a portata dei suoi, me li avrebbe schiacciati di rabbia. Berlinguer invece mi guardava e volgeva lo sguardo anche ad altri in modo asettico. Sembrava a tratti un burocrate, come mi disse il giorno dopo Montanelli, scusandomi del ritardo con il quale, distratto appunto da quella posa burocratica, si era reso conto dell’occasione che avevo fornito al segretario del Pci di compiere molto più di uno strappo nei rapporti con Mosca, per quanto egli continuasse a sostenerne in Italia le ragioni contro il riarmo missilistico della Nato.

Le regole ferree di Tribuna Politica non consentivano interruzioni o repliche. Ma il giornalista del turno successivo, l’indimenticabile e simpatico Sergio Turone, del Messaggero, destinato purtroppo a morire suicida nella sua terra d’Abruzzo 14 anni dopo, non si lasciò scappare l’occasione. E incalzò il segretario comunista lodandone “la felice eresia”. Berlinguer se lo guardò stupito, evitando a sua volta lo sguardo affranto del suo sempre più terreo portavoce. Che da allora non mi rivolse più la parola.

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