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La guerra del petrolio fra sciiti e sunniti

Il prezzo del petrolio non risale nonostante l’escalation dell’instabilità in Medio Oriente perché a differenza del passato essa non sembra per ora mettere a repentaglio le forniture provenienti da quell’area. In aggiunta, il mercato globale del petrolio è in una condizione di eccesso strutturale di offerta, che ha deteriorato il quadro dei fondamentali di mercato.

In questo clima, la politica petrolifera dell’Arabia Saudita sembra dettata dall’intenzione di ripristinare alla radice la sostenibilità dei fondamentali e dell’equilibrio del mercato, piuttosto che di indebolire i propri “avversari” politici. Se i sauditi agissero spinti da criteri puramente politici non farebbero i loro interessi, in quanto anch’essi stanno pagando un prezzo salato nell’attuale fase di mercato. Lo scenario petrolifero di oggi ha impatti importanti su quello geopolitico a livello globale, non solo in Medio Oriente. Tuttavia è improbabile che eventi, come la lotta per la supremazia politica in Medio Oriente tra Iran e Arabia Saudita, possano essere determinanti per gli sviluppi recenti nel mercato del petrolio.

La verità è che i sauditi (e probabilmente anche gran parte degli altri produttori dell’OPEC), sulla base dell’esperienza del passato e di argomentazioni puramente di mercato, ritengono la scelta di un taglio della loro produzione non opportuna, in quanto molto onerosa e soprattutto pericolosa nel lungo termine. Così scelgono il male minore, ovvero fanno scivolare i prezzi ma puntano a mantenere inalterate le proprie quote di mercato.

Oggi un taglio riporterebbe i prezzi a livelli maggiori ma solo temporaneamente, perché la corsa della crescita dell’offerta non rallenterebbe, e non si affronterebbe il problema del surplus strutturale di offerta alla radice. Nel tempo, sarebbero quasi sicuramente necessari ulteriori tagli, difficilmente realizzabili.

Se i sauditi oggi adottassero tagli della produzione, rischierebbero di ritrovarsi a tendere uno scenario non solo con prezzi più bassi ma anche quote di mercato molto inferiori a quelle attuali, con un bagno di sangue per le loro casse. Per riportare il mercato in equilibrio strutturale e i prezzi a livelli sostenibili, essi sono costretti a gestire una transizione con prezzi bassi fino al punto in cui i produttori fuori dall’OPEC, tradizionalmente meno efficienti, saranno spinti a uscire dal mercato. Nel frattempo cercano di mantenere inalterate le proprie quote di mercato con guerre commerciali.

L’OPEC, in passato, ha ridotto la propria offerta per gestire con successo shock congiunturali (es. calo di domanda in fasi di recessione economica). Tuttavia non è riuscito a riportare il mercato in equilibrio con l’arma dei tagli produttivi anche nelle fasi di squilibrio strutturale come quella degli anni ’80 e ’90, durante la quale si determinò un eccesso di offerta per la nuova produzione proveniente dal di fuori dell’OPEC, incentivata dalle interruzioni degli approvvigionamenti e dai prezzi elevati per le crisi petrolifere degli anni ’70.

Al conseguente crollo dei prezzi, l’Arabia Saudita reagì inizialmente con un taglio unilaterale della produzione nell’intento di bilanciare il mercato e far rientrare tale crollo, che sperò di condividere con il resto dell’OPEC, ma senza successo, e così non poté fare a meno di invertire la rotta per recuperare le quote di mercato perse, con politiche commerciali aggressive e guerre di prezzo.

Le similitudini con le condizioni attuali sono molte. Nella seconda fase (anni ’90), quando invertirono la propria strategia recuperando quote di mercato, i sauditi stabilizzarono i ricavi petroliferi nonostante l’ulteriore calo dei prezzi. Alla fine, i costi in termini di ricavi petroliferi e contrazione del PIL/capite (quasi dimezzato) furono notevoli e si protrassero a lungo (fino all’inizio del 2000). Potrebbe non essere casuale che nell’affrontare lo scenario attuale la loro strategia sia stata differente fin dall’inizio.

Quel ciclo si protrasse a lungo (oltre 15 anni). Oggi ci si chiede se la nuova fase ribassista durerà quanto quella precedente. Ciò dipenderà dall’esito e dal tempo dell’aggiustamento dell’offerta al di fuori dell’OPEC. Dall’avvio del nuovo ciclo ribassista, la produzione al di fuori dall’OPEC è diminuita ma meno reattivamente di quanto si attendeva. Da un lato per la rigidità dei molti progetti convenzionali già realizzati o in fase avanzata e dall’altro lato per la flessibilità di quelli non convenzionali USA.

All’interno dell’OPEC invece la produzione non sembra diminuire. Sullo sfondo è sempre presente la minaccia di una guerra petrolifera tra produttori sunniti (GCC) e sciiti (Iran-Iraq). Gli ultimi hanno piani molto ambiziosi di incremento della produzione nonostante lo scenario negativo del mercato, e nei prossimi due anni potrebbero riuscire a realizzarli. In particolare l’Iran, grazie alla caduta dell’embargo e al ritorno delle major occidentali nel paese. I paesi del Golfo tuttavia non sembrano mostrare disponibilità a lasciare spazio ai rivali. Per ora entrambi i fronti continuano a incrementare i volumi di produzione anche se in modo molto contenuto e graduale, in coerenza con la strategia di difesa delle quote di mercato, e in attesa dell’evoluzione del mercato nel suo complesso.

Quello precedente è un fattore che nel medio termine potrebbe peggiorare i fondamentali del mercato ancor di più rispetto al quadro attuale. Per questo motivo i protagonisti per il momento sembrano non soffiare sul fuoco. Nel lungo termine, è però la minaccia di un’ampia diffusione del gas e dell’elettricità nei trasporti, con shock sulla domanda di portata potenzialmente dirompente, che potrebbe rappresentare il vero game changer in grado di rovinare la festa a molti, soprattutto ai sauditi, che basano le loro entrate quasi esclusivamente sul petrolio.

Gli effetti collaterali del crollo dei prezzi nel frattempo si fanno già sentire. Si registrano deficit nei bilanci pubblici di quasi tutti i produttori dell’OPEC, anche quelli con i fiscal break even più bassi come i paesi del Golfo che tuttavia, grazie alle ingenti riserve finanziarie accumulate in passato, hanno le spalle più larghe per affrontare lo scenario attuale.

Nel lungo termine però, essi potrebbero risultare quelli più vulnerabili, soprattutto in caso di un calo strutturale della domanda di petrolio, per la elevata dipendenza da questa materia prima, necessaria a sostenere un modello socio-economico rigido fondato su spese di welfare, consumi energetici interni e investimenti in armamenti in aumento in uno scenario in costante deterioramento per la crescita della popolazione e l’escalation dell’instabilità interna ed esterna.

Di fronte a un quadro simile l’OPEC non ha molte alternative alla condotta attuale per fronteggiare la minaccia che viene da “fuori” ed eliminare il maggior numero possibile di concorrenti esterni. In futuro nuovi meccanismi di coordinamento della produzione dovranno essere trovati per ridurre la volatilità e gestire meglio la ciclicità del settore che potrebbe mettere a rischio gli investimenti.

Ma la torta è comunque destinata a restringersi e di questo prima o poi i produttori dell’OPEC dovranno tenerne conto. La transizione verso modelli che dovranno basarsi sempre meno sulle entrate petrolifere sarà inevitabile. A meno di far prevalere il caos, un caos che potrebbe estendersi con facilità molto al di là dei loro confini.


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