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Che cosa ho visto alla Leopolda

Ieri si è conclusa con il lungo intervento di Matteo Renzi la sesta edizione della Leopolda, appuntamento fiorentino che ha segnato l’inizio dell’avventura politica del presidente del Consiglio. Com’è noto il format è contraddistinto dalla grande dinamicità degli interventi, che si sono susseguiti come di consueto uno dopo l’altro nella lunghezza di tre giorni, e dall’immagine molto politica e poco partitica della convention.

La prima osservazione che immediatamente è opportuno fare riguarda la platea. Migliaia di persone presenti nella fascinosa antica stazione: un campione selezionato, veramente qualitativo, del nostro Paese. Paragonata ad altri simili eventi dello stesso genere, colpisce la consistente presenza di giovani e l’ottimo livello morale dei partecipanti: professionisti, uomini e donne di cultura, ma soprattutto cittadini molto perbene. Chi come me è abituato da sempre ad andare un po’ per curiosità e un po’ per passione a questi appuntamenti non ha potuto non notare il clima sobrio, senza bandiere e senza troppo comodi entusiasmi, espressione complessiva di una parte buona ed eterogenea della nostra società, non riconducibile né alle classiche kermesse tradizionali della sinistra e neanche ai tipici modi di essere dell’elettorato moderato e conservatore, solitamente poco attenti alla dimensione aggregativa e più alle sollecitazioni individuali.

La valutazione del discorso di Renzi, alla luce proprio di questo suo popolo presente, genera una serie di considerazioni che riguardano sì il renzismo come fenomeno transpolitico, ma anche il fattore generazionale che traspare rispetto agli schieramenti consueti e alle identità di classe dei partiti tradizionali. Se, insomma, c’è un elemento d’innovazione in quello che Renzi rappresenta con la sua leadership è sicuramente il riferirsi a una parte d’Italia originale, fresca, che si riconosce perciò nei messaggi che egli, con la nota maestria di comunicatore, infonde e alimenta.

Più complessa è, invece, la valutazione di merito sul discorso del Premier.

Come detto dianzi, nulla da dire sull’efficacia retorica, a tratti interrotta da qualche ripetizione, e nulla da eccepire sulla capacità di tenere attenti gli uditori per oltre un’ora. Se comunicare è il punto di forza di Renzi, ebbene egli ne ha sfruttato a pieno, in un contesto tutto suo, il potenziale carismatico e la modernità pop.

Meno positiva, viceversa, è la valutazione sui contenuti strettamente politici. Sicuramente, come il sindaco di Firenze Dario Nardella ha chiosato, il renzismo è comprensibile esclusivamente se si considera come un coagulo collettivo che oltrepassa la dualità destra-sinistra che ne sta a monte. Ciò è forse la chiave migliore per cogliere cosa possa significare l’ascesa nel Pd di un personaggio non appartenente in nessun modo alla storia della sinistra, nonché l’entità storica di questo suo risultato. La Leopolda, in fondo, ha relegato la minoranza interna del Pd, e quanto sopravvive in esso, sullo stesso piano della destra salviniana: un’area retrodatata e incapace di uscire dagli antichi steccati ideologici del passato.  Renzi si oppone frontalmente per stile e mentalità a una fetta di elettorato contrapposta al suo interno ma identica nella sua essenza, trovando un baricentro riformatore nella motivazione più che nella passione, nella partecipazione discreta più che nell’attrazione, nel cambiamento circospetto più che nel fanatismo identificante.

Una dimostrazione di questo discorso è riscontrabile nella difficoltà oggettiva, anche solo teorica, di trasferire al livello quantitativo delle grandi masse l’anima della Leopolda: un parterre comunque localizzato ed elitario, che non garantisce ancora una facile diffusione generalizzata. Certo, l’Italia è un Paese che ha una vocazione democratica centrista; e Renzi è l’interprete tipico di quest’area cattolica riformatrice che vorrebbe costituirne il collante. Restano però ancora tanti elettori che si astengono dal votare, che optano per il M5Stelle, o che non sono in grado di superare la diffidenza per un leader che è anche segretario del partito erede diretto del PCI. Renzi, in fin dei conti, resta comunque a capo di ciò che per vocazione iniziale egli vorrebbe abbattere e cestinare.

Di tutto questo ovviamente alla Leopolda non si parla. Di questa contraddizione Renzi opportunamente non si avventura a dire qualcosa.

Quello che conta, primariamente, è l’ispirazione riformatrice, l’assoluta volontà di tradurre il diniego per la vecchia politica gerontocratica e fissista in una progettualità concreta, anti ideologica, pronta ad assumere consolidate istanze democratiche, che tengano insieme le esigenze di cambiamento tipiche del craxismo, la persuasione propriamente toscana dell’ineluttabilità di stare comunque e sempre a sinistra, con il consapevole utilizzo della comunicazione televisiva berlusconiana contro il suo stesso populismo mediatico.

Se si esce, in ogni caso, da questo non spiacevole mantra di vitalità giovanile e di un consistente orgoglio di appartenenza alla classe delle persone perbene, la linea di Renzi appare ancora fragile e non pienamente consolidata, almeno su due punti fondamentali. Il primo è quello autenticamente politico. Ascoltandolo viene spontaneo pensare che quella forza espressiva sarebbe stata perfetta per uno spettacolo teatrale o per la gestione di una multinazionale. Nessun cenno al problema cruciale costituito dalla magistratura; nessun cenno al disegno prospettico dello Stato che uscirà dalle riforme; nessuna attenzione alla tematica della sicurezza; nessuno ai modi in cui egli intende muoversi elettoralmente da qui al 2018 nel quadro di un partito che si capisce bene proprio alla Leopolda quanto non sia il suo naturale strumento operativo.

Un secondo punto è la politica estera. Davanti ad un mondo incendiato da conflitti e sostanzialmente dominato dalla rilevanza enorme e crescente degli scenari internazionali, forse ci si aspetterebbe una visione più profonda e di merito del ruolo italiano, in riferimento alla Russia, alla Siria, agli Stati Uniti, e ancor più alle dinamiche dei rapporti intra-europei.

E’ vero che Renzi ha scaldato la Leopolda vantando il fatto che il Pd è il partito nazionale più grande a livello comunitario, ma a tale forza non si sta accompagnando per ora un’altrettanta indiscutibile rilevante presenza dell’Italia, tormentata da un’UE molto severa, e da un nostro peso mediterraneo e mediorientale praticamente inconsistente.

La conclusione da cittadino qualunque è, quindi, che Renzi certamente costituisce una realtà politica importante, e la Leopolda un pubblico perfetto per nutrire il successo renziano; ma tutto ciò, al contempo, apre interrogativi grandi sull’estendibilità alle grandi masse di un fenomeno del genere, ancora molto circoscritto, generando dubbi sulla sua compatibilità con le logiche proprie di un partito nazionale molto attaccato a una prassi lenta e conservatrice, com’è il Pd.

Alla comunicazione geniale, in definitiva, deve seguire una politica nazionale e internazionale adeguata. E a un progetto così innovatore, forse un partito che sia altrettanto nuovo. I grandi risultati di Renzi, Jobs act e rottamazione riformatrice in testa, sono tutto, infatti, meno che scelte di sinistra. E se in nessun modo il Pd avrebbe mai sostenute tali opzioni, senza Renzi e la Leopolda, per Renzi e la Leopolda prenderne atto è oggi la cosa più importante da fare.


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