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Contro Merkel meglio la mimetica di Renzi che il loden di Monti

Immagino, con l’irriverenza che magari avrà già ispirato qualche vignettista, spesso più efficace di parecchi giornalisti blasonati, la cancelliera tedesca Angela Merkel alle prese con le immagini di Matteo Renzi in jeans e tuta mimetica fra i militari italiani in Libano. Che, per quanto impettiti pure loro, stentavano a tenergli il passo.

La cancelliera non certo di latta, reduce da uno scontro a Bruxelles proprio con lui, si sarà chiesta che cosa dovrà ancora attendersi da questo giovane presidente del Consiglio italiano. Al quale ormai, secondo vecchie conoscenze della stessa Merkel, manca solo l’elmetto nei vertici comunitari. Dove arriva sempre a passo di carica, petto in fuori, mano tesa a quelle altrui solo per stringerle con la forza, per quanto fuggevole, di uno schiaccianoci.

Mi riferisco naturalmente allo schiaccianoci vero, non al balletto ingentilito dalla note di Petr Jlli’c Cajkoskj, che la figliola di Renzi ha già imparato a conoscere e apprezzare procurandosi il compiacimento del babbo. Il quale di recente si è scherzosamente sottratto all’assedio dei cronisti nella ex stazione fiorentina della Leopolda, dopo avere concluso con un lungo comizio il raduno annuale dei suoi amici, invocando proprio il diritto di correre a vedere danzare e cantare la figlia.

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Lo stile di Renzi, ma anche qualcosa di più dello stile, nei vertici europei e, più in generale, nei rapporti con la cancelliera tedesca e gli altri colleghi dell’Unione, non piace per niente ai suoi ultimi due predecessori a Palazzo Chigi, che sono, in ordine  alfabetico, Enrico Letta e Mario Monti. Non piace soprattutto a Monti, che è stato il più esplicito e politicamente velenoso, difendendosi così su Repubblica del 21 dicembre dall’accusa, rivoltagli insieme da renziani, berlusconiani e leghisti, di essere stato a suo tempo troppo supino alla Merkel: “I pugni sul tavolo avrebbero infranto non i dogmi tedeschi ma le mani dell’Italia”. E potrebbero ancora infrangerle, secondo il senatore a vita, spalleggiato aristocraticamente sul Corriere della Sera il giorno successivo da Enzo Moavero Milanesi, già ministro per gli affari europei proprio con Monti, e poi anche con Enrico Letta.

Monti è evidentemente di quelli convinti che si debbano avvolgere di velluto i pugni, anche se non sono stati certamente di velluto quelli da lui sferrati, appena insediato a Palazzo Chigi, contro i proprietari delle prime case, spremuti di tasse come limoni.

L’anno dopo, a conti fatti, quando si scoprì che il gettito dell’inasprimento fiscale sugli immobili aveva procurato circa quattro miliardi di euro più del previsto, l’equivalente proprio della tassazione delle prime case, Monti diede quasi del pazzo al suo predecessore Silvio Berlusconi per averne reclamato la soppressione.

Il leader dell’allora Pdl, e di ciò ch’era rimasto del centrodestra dopo la rottura con Gianfranco Fini ed altri, fece di quella richiesta il principale tema della campagna elettorale per il rinnovo delle Camere, rasentando clamorosamente la vittoria e contenendo gli effetti dell’esordio della effimera Scelta Civica dello stesso Monti. Effimera, perché nel giro di meno di due anni il movimento montiano è letteralmente evaporato, abbandonato per primo proprio dal suo fondatore, deluso dallo sbandamento di quelli ch’egli era riuscito a portare in Parlamento con il sistema porcellesco delle liste bloccate, cioè dei deputati e senatori solo formalmente eletti, in realtà nominati dai vertici dei partiti di appartenenza.

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Ostinato e resistente come il loden che indossa d’inverno alla stregua di una divisa, Monti ha naturalmente contestato la decisione di Renzi di detassare berlusconianamente le prime case, resistendo alle osservazioni critiche, e a volte persino minacciose, della Commissione Europea e dintorni. E gli ha dato non dico del populista e dell’incompetente, ma quasi.

E’ proprio alludendo a Renzi, e a quanti gli assomigliano politicamente in Italia e fuori, che Monti ha criticato la “smania” non di “conoscere per deliberare”, come raccomandava Luigi Einaudi, ma di deliberare prima ancora di conoscere, o addirittura rinunciando deliberatamente a conoscere, più attratto dai voti immediatamente ricavabili nelle urne, locali o nazionali, che preoccupato o consapevole degli effetti economici a lunga scadenza.

Dei danni procurati dalla tassazione delle prime case, oltre che ai proprietari, al settore economicamente rilevante dell’edilizia, e relativo indotto, a vantaggio solo della disoccupazione, neppure a parlarne. Agli investimenti nel mattone Monti evidentemente preferisce, e con lui molti a Bruxelles, gli investimenti borsistici, fra gli applausi degli speculatori di giornata.


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