“Il migliore equilibrio possibile”. Così il presidente della Cop21, Laurent Fabius, ha definito “l’Accordo di Parigi” – è il suo nome ufficiale – adottato, sabato 12 dicembre, dai 195 paesi membri della Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici. Si tratta, di fatto, di un compromesso guidato dal principio di giustizia climatica, e cioè, dal riconoscimento che i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo hanno delle “responsabilità comuni ma differenziate” nel cambiamento climatico e che dunque le loro rispettive capacità di affrontare la sfida climatica sono differenti. Il documento di 32 pagine, nella sua versione inglese, si compone di due parti: una decisone non soggetta a ratifica da parte degli Stati, e l’accordo stesso, che invece necessita di una ratifica secondo la legislazione di ogni paese. Ecco quali sono i punti principali.
AL DI SOTTO DEI 2°C, E SE POSSIBILE DI 1,5°C
Questo è il cuore dell’Accordo di Parigi ed è il risultato più ambizioso dell’obiettivo iniziale della COP21 che aveva come scopo di contenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia di 2°C. L’articolo prevede infatti di mantenere la temperatura del pianeta “ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali” e “di continuare gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura entro 1,5 ° C “, che “ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti dei cambiamenti climatici“. Allo stato attuale delle emissioni globali di gas serra, il tetto di 1,5 ° C non è realistico, ma la sua menzione all’interno del testo, richiesta con vigore dai piccoli Stati insulari minacciati di scomparire a causa delle conseguenze del global warming, ha soprattutto un significato simbolico e politico.
Questo esercizio di buona volontà è tuttavia indebolito dall’assenza di obiettivi definiti di lungo termine. E’ infatti previsto solamente di raggiungere “un picco di emissioni globali di gas serra prima possibile” e poi di arrivare a un “equilibrio tra le emissioni che derivano dalle attività umane e le rimozioni di gas serra nella seconda metà del secolo”. Secondo l’Ipcc, l’organismo delle Nazioni unite che studia i mutamenti climatici, bisognerebbe diminuire le emissioni globali dal 40% al 70 % entro il 2050 per evitare che le alterazioni del sistema climatico diventino incontrollabili.
SULLA BASE DELL’EQUITÀ
La differenziazione degli sforzi domandata ai Paesi, in funzione delle loro responsabilità storiche nei cambiamenti climatici e del loro livello di ricchezza, anche questa volta ha cristallizzato l’opposizione tra Nord e Sud del mondo. Il testo riconosce che gli sforzi devono essere fatti “sulla base dell’equità“. A tal fine, stabilisce una distinzione tra i paesi sviluppati, che “continuano a dare l’esempio assumendo obiettivi di riduzione delle emissioni in termini assoluti”, e i Paesi in via di sviluppo che “dovrebbero continuare ad aumentare i loro sforzi di mitigazione ( … ) nei rispettivi contesti nazionali”. L’accordo sottolinea inoltre che ” deve essere dato un sostegno ai paesi in via di sviluppo” da parte delle nazioni economicamente più avanzate.
100 MILIARDI DI DOLLARI, UN FONDO PER SALDARE IL DEBITO CLIMATICO
I Paesi sviluppati nel 2009 hanno promesso di mobilitare 100 miliardi di dollari (91 miliardi di euro) l’anno, da qui al 2020, per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici, la desertificazione, le inondazioni, i cicloni, l’innalzamento dei livelli del mare. Finanziamenti che i paesi più vulnerabili vorrebbero progressivamente più elevati nei prossimi decenni. Il testo accoglie in parte le loro richieste prevedendo che si dovrà stabilire un “nuovo obiettivo quantificato entro il 2025” ma il finanziamento è stato inserito nella Decisione e non nell’Accordo per evitare che paesi come gli Stati Uniti dovessero passare attraverso un processo di ratifica da svolgersi in questo caso dinanzi al congresso americano a maggioranza repubblicana e soprattutto poco sensibile alla svolta green del Presidente Obama.
NESSUN INDENNIZZO PER LE PERDITE E I DANNI
Si tratta di un tema molto sensibile per i Paesi più minacciati dalle conseguenze del global warming, in questo caso l’accordo riconosce “la necessità di evitare di ridurre al minimo le perdite e i danni legati agli effetti nefasti del cambiamento climatico e di porvi rimedio”. Elenca diverse aree di “cooperazione”, come i sistemi di allerta o la preparazione alle situazioni di urgenza. Ma la decisone concordata esclude ogni “responsabilità o compensazione”, di fatto i Paesi ricchi si sono rifiutati di dover rimborsare finanziariamente i paesi poveri per i pregiudizi climatici che subiscono.
LA REVISIONE DEGLI IMPEGNI OGNI 5 ANNI
E’ un punto cruciale. Con i contributi nazionali di riduzione delle emissioni di gas serra presentati dagli stati membri, siamo su una traiettoria che porterà il pianeta a circa 3°C, molto al di sopra dell’obiettivo previsto di 2°C, per non parlare di 1,5°C. Ad oggi 187 paesi su 195 hanno presentato i contributi, che non fanno parte dell’accordo in senso stretto e che, essendo volontari, non sono vincolanti. Il testo prevede una revisione di questi contributi ogni cinque anni, la prima revisione è in programma nel 2025, poiché l’accordo globale entrerà in vigore a partire dal 2020. Per le ONG si tratta di una scadenza troppo lontana, e in effetti molti paesi come l’Unione europea, gli Stati Uniti, il Brasile e circa 80 Paesi in via di sviluppo, riuniti in una “coalizione dell’ambizione” che si è costituita durante la COP, pensano ad una revisione prima del 2020.
ALMENO 55 PAESI
Per entrare in vigore l’Accordo dovrà essere oggetto di una ratifica, accettazione, approvazione o adesione, a partire dal 22 aprile 2016, da “almeno 55 paesi” che rappresentano almeno 55% delle emissioni globali. Nel caso degli Stati Uniti, Barack Obama dovrà privilegiare la via dell’executive agreement, una forma di decreto presidenziale che gli permetterà di aggirare l’ostacolo del Senato repubblicano. E ancora si legge che “in ogni momento dopo un periodo di tre anni a partire dall’entrata in vigore dell’Accordo” le parti potranno ritirarsi sulla base di una semplice notifica.
GIURIDICAMENTE VINCOLANTE?
Laurent Fabius, l’ha ripetuto al momento dell’annuncio: l’accordo di Parigi è “giuridicamente vincolante”. La questione in realtà è oggetto di dibattito tra i giuristi nella misura in cui non prevede meccanismi coercitivi né delle sanzioni in caso di inadempimento. Tuttavia comporta numerosi obblighi di risultato e la sua forma giuridica e cioè quella di un trattato internazionale obbliga ”ad essere eseguito in una buona fede tra le parti”.
Infine l’accordo di Parigi prevede dei meccanismi di trasparenza, la cui regia verrà affidata ad un comitato di esperti che dovranno verificare pubblicamente le informazioni fornite dai paesi in termini di monitoraggio delle emissioni. L’articolo 13 stabilisce inoltre che questi meccanismi servano anche a “creare una fiducia reciproca” e a “promuovere l’implementazione” sperando che la pressione da parte dell’opinione pubblica incoraggi gli Stati a rispettare le loro promesse.