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Mosul, che succede tra Italia e Irak?

«Nessuna intesa è stata finora raggiunta tra governo iracheno ed italiano» ha dichiarato il portavoce dell’esecutivo di Baghdad, Saad al Hadithi, a proposito dell’annuncio del premier italiano Matteo Renzi, che, durante il programma televisivo “Porta a Porta“, aveva annunciato l’invio in Iraq di 450 militari da schierare a difesa dei lavoratori della Trevi, ditta di Cesena che si sarebbe aggiudicata l’appalto per la riparazione dell’imponente diga di Mosul.

La notizia, lanciata dall‘Ansa nella serata di lunedì, riporta l’invio del contingente italiano in Iraq al centro del dibattito politico, perché a quanto pare alla ditta cesenate non sarebbe stato attribuito ancora definitivamente l’incarico per i lavori infrastrutturali e, in aggiunta, il governo iracheno non si sarebbe mostrato molto contento dell’invio dei soldati dall’Italia. Scrive l’Ansa che il ministro delle risorse idriche Mushsin Al Shammary, avrebbe ricevuto ieri l’ambasciatore italiano, Marco Carnelos, affermando che l’Iraq «non ha bisogno di alcuna forza straniera per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora».

IL CONTRATTO

Il ministro iracheno, secondo quanto riportato dall’agenzia stampa, ha detto che la Trevi avrebbe presentato soltanto i documenti in regola per partecipare all’assegnazione dell’appalto di consolidamento fondale e strutturale della diga (un lavoro da diverse decine di milioni di dollari, sulla più grande diga d’Iraq). Per il ministro della Difesa italiano Roberta Pinotti, però, l’esito della gara dovrebbe essere scontato, dato che la ditta di Cesena è l’unica ad aver presentato un’offerta. Da Roma spiegano che l’incarico ai militari sarà formalizzato solo dopo l’assegnazione dell’appalto, ma secondo quanto riportato dall’Ansa, alcuni membri di gruppi scelti dell’esercito italiano, si sarebbero già recati sul posto per un primo sopralluogo. Anticipazione questa quasi scontata, perché certe missioni devono essere precedute da operazioni di raccolta informazioni su pericoli, esigenze logistiche e pratiche organizzative, che di solito sono portate a termine dai reparti delle forze speciali. Oggi il presidente del Senato Pietro Grasso è a Baghdad, sarà ricevuto dal presidente della Repubblica irachena, Fouad Masum, ed incontrerà il presidente del Parlamento Salim al Jabouri ed il patriarca Louis Sako, e forse tra i temi ci sarà anche la questione della diga di Mosul. Renzi invece è in Libano, per portare il saluto di Natale alle truppe italiane impegnate con il contingente Onu: la presenza in Medio Oriente di due delle più alte cariche della repubblica italiana è un segnale forte lanciato dal governo di Roma.

LE CONTROVERSIE

L’invio dei soldati italiani a Mosul, considerato dal governo una priorità di interessa nazionale per difendere circa quaranta lavoratori della ditta Trevi, potrebbe avvenire a primavera: come anticipato da Formiche.net, l’organizzazione di una missione del genere richiede del tempo; contrariamente a quanto diffuso finora, invece, pare che a partire non saranno i parà della “Folgore”, ma i Bersaglieri della brigata “Garibaldi” con i propri mezzi meccanizzati (confermata invece la presenza di operatori dei reparti speciali e di nuovo citato l’appoggio aereo, forse fornito da elicotteri a supporto truppe). Fin dall’annuncio, la missione aveva suscitato diverse polemiche, ora nuovamente infuocate dalla notizia di lunedì, secondo cui pare che un’operazione così sensibile sia stata comunicata dal governo prima di essere concordata con l’Iraq. Tra le principali preoccupazioni degli osservatori, c’è il ruolo dei soldati italiani e le regole d’ingaggio: in molti sostengono che potrebbero finire per ricoprire posizioni simili a quelle dei contractor privati (ancor più se non c’è intesa con Baghdad), coinvolti in un magma giuridico che rischierebbe di aprire controversie simili a quelle che hanno coinvolto i due Marò italiani in India. Preoccupazioni rese ancora più alte dal fatto che in questo momento, dopo mesi, l’area di Mosul è tornata ad essere una delle più calde dell’intero fronte iracheno nella guerra allo Stato islamico. Alberto Negri, in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, ha messo insieme queste preoccupazioni: «Come dice il presidente del Consiglio questo non è il Paese dei balocchi, quindi decide il Parlamento, non l’audience o i social network. Questo non è il Paese dei balocchi perché i soldati non sono dei contractor a disposizione del governo ma degli uomini, dei professionisti, e bisogna sapere perché debbano essere mandati e soprattutto con quali regole di ingaggio. In cambio di un appalto? Sembra un po’ troppo poco». «Speriamo non vengano a dire che è l’ennesima missione di pace.», chiosava Negri.

DICHIARAZIONI “GEOPOLITICHE”

Va comunque sottolineato che i membri dell’esecutivo di Baghdad non sono nuovi in uscite ad effetto e annunci poi smentiti: per esempio, il governo iracheno ha dichiarato l’uccisione del Califfo Baghdadi in almeno tre occasioni, dichiarazioni successivamente smentite e talvolta spernacchiate dallo stesso interessato. Dunque certe esternazioni vanno prese con cautela, perché possono essere ridimensionate o stravolte del tutto nel giro di poche ore. Baghdad – notano alcuni osservatori – non sempre è una voce autorevole, anche perché è molto allineata con le volontà degli ayatollah iraniani; un aspetto che, sotto certi punti di vista, rende le dichiarazioni irachene ancora più interessanti. L’Iraq ufficialmente fa parte della Coalizione guidata dagli Stati Uniti, di cui è membro anche l’Italia, ma ospita il più importante centro di coordinamento per le attività russo-iraniane in Siria; con Teheran è legato dal cordone ombelicale dell’asse sciita.

Il ruolo dell’Iran. Se non fosse stato per l’uccisione del leader del Partito di Dio libanese Samir Kuntar, che ha attirato le più classiche e infuocata invettive e minacce anti-israeliane (Israele è considerato l’autore dell’attacco omicida), le dichiarazioni delle milizie sciite schierate in Iraq sarebbero state concentrate sulla questione “soldati italiani”. La prima a cominciare, il giorno dopo dell’annuncio di Renzi, fu la Kataib Hezbollah, partito/milizia che l’Iran ha installato in Iraq sull’impronta dell’omonimo libanese in cui militava Kuntar: “saranno considerate come forze di occupazione”, diceva un comunicato a proposito delle forze italiane a Mosul. La Kataib Hezbollah, insieme a tutte le altre milizie sciite irachene, è stata protagonista di attacchi sanguinosi contro il contingente americano durante gli anni della guerra dopo il 2003; ora combatte sotto l’ombrello del grande conglomerato miliziano (assoggettato agli ordini iraniani) Hasad al Shaabi, la Forza di mobilitazione nazionale, che aiuta l’esercito iracheno e più o meno indirettamente riceve l’appoggio areo della Coalizione occidentale nelle offensive più importanti (come quella di questi giorni a Ramadi). Anche Moqtada al Sadr, il più importante degli ayatollah sciiti in Iraq, uno dei principali ispiratori dell’insurrezione contro le truppe americane nel periodo dell’occupazione, ha detto la sua a proposito del contingente italiano: «L’Iraq è diventato una piazza aperta a chiunque voglia violare i costumi e le norme internazionali». L’Iran, neo-rivalutato partner dell’Occidente post accordo nucleare, non perdere mai occasione di muovere i suo cani da guardia.


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