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Chi (non) fa la guerra a Isis

Finalmente la verità. “Sono d’accordo con il generale Dunford che non abbiamo contenuto l’Isis”, ha ammesso il segretario alla Difesa Ashton Carter (nella foto). Forse il Califfato è stato “contenuto tatticamente” (così ha si è espresso davanti alla commissione difesa del Congresso, forse per non spiazzare del tutto Obama secondo il quale invece il contenimento era riuscito), “ma non strategicamente”. Quindi, ha concluso senza mezzi termini il capo del Pentagono, “siamo in guerra”. “Gli Usa sono pronti all’invio di elicotteri Apache e consiglieri militari in Iraq” per aiutare le forze locali a riprendere il controllo di Ramadi. Ma dispiegare “significative” forze di terra è una cattiva idea perché “americanizzerebbe” il conflitto. Poi un invito a Putin: “La Russia deve concentrarsi sulla parte giusta di questa guerra”.

Nelle sue parole sono condensate tutte le difficoltà del compito. Il primo problema è formare una vera coalizione. Come si sa, ciascuno dei 40 Paesi che in qualche modo si sono detti disposti a intervenire combatte una propria guerricciola e nessuno combatte la vera guerra.

Mosca sembra fare sul serio, ma il suo bersaglio è diverso da quello americano. Ha sperimentato i propri missili (il lancio è stato un test fuori dal laboratorio), ha constatato con soddisfazione che funzionano, ha buttato in pasto alla stampa un’altra smargiassata (ci vorrebbero le testate nucleari, peccato che non si possono usare), poi Putin ha tirato fuori la questione che gli sta a cuore: lasciate perdere Assad, anzi adesso è un alleato prezioso, poi si vedrà.

La Russia è convinta che battere il Califfo non sia difficile e rappresenti comunque non il fine, bensì il mezzo per raggiungere il proprio scopo: partecipare da protagonista al futuro assetto (spartizione?) della Siria dopo Assad, con al comando un uomo di propria fiducia, che non scontenti l’Iran, sponda preziosa da sottrarre alle mire americane.

La Turchia ha ben altri obiettivi: frenare i russi, eterni nemici, tenere sotto il proprio tallone i curdi, e soprattutto spazzare via la Siria, cuscinetto scomodo e pericoloso sulla strada del Sultanato. Se Putin insegue il sogno della Grande Russia un po’ zarista un po’ sovietico, Erdogan si è da tempo proclamato erede dell’impero ottomano.

L’Arabia saudita e gli emirati, i grandi sponsor del Califfo, hanno tirato i fili del pupazzo che avevano intenzione di manovrare per contenere l’Iran (tanto più dopo che Obama aveva sdoganato gli ayatollah, consentendo loro di dotarsi del nucleare sia pur civile). Ora sanno di aver fatto gli apprendisti stregoni. L’emiro del Qatar se ne infischia. La monarchia saudita, scossa da lotte dinastiche, indebolita dentro l’immenso clan familiare e soprattutto nel rapporto con una popolazione che aumenta e accresce le proprie esigenze, si sta chiedendo se le conviene davvero mettersi contro gli Stati Uniti.

Alla svolta del nuovo secolo, gli eredi di Ibn Saud hanno usato Osama Bin Laden come arma di ricatto nei confronti di un’America satolla, convinta che la libertà e il mercato avevano trionfato una volta per sempre. Oggi Obama vorrebbe tirarsi fuori dal Medio Oriente e soprattutto favorisce l’indipendenza energetica degli Stati Uniti. Un’arma letale che può mettere in ginocchio gli sceicchi.

Il crollo del prezzo del petrolio sta già creando numerosi problemi. Le casse saudite si stanno prosciugando e la corona fa rientrare a tutta forza i capitali. Se gli Stati Uniti volessero o se vi fossero costretti dagli sviluppi della situazione, potrebbero togliere gli alimenti al Califfato, mandando in bancarotta sauditi ed emiri. Il prezzo del greggio può diventare uno strumento politico per l’Occidente come lo è stato negli anni ’70 per gli arabi.

Le stesse compagnie americane perderebbero quattrini e lo shale oil non sarebbe più competitivo? Può darsi, ma chiunque abbia bazzicato il Congresso in questo periodo sa che l’indipendenza energetica è un primario obiettivo di sicurezza nazionale al quale anche le sette sorelle si piegano. L’America è fatta così. Non solo. Il prezzo del petrolio è uno strumento anche per mettere la museruola all’orso russo. Putin fa il gradasso, intanto la Russia si dibatte in una recessione che ha tagliato qualcosa come 3-4 punti di prodotto lordo solo quest’anno. Il paese è una monocoltura di petrolio e gas, un altro crollo dei prezzi la metterebbe definitivamente in ginocchio. Si sente dire che i russi sono abituati a soffrire. Ma hanno fatto anche rivolte e rivoluzioni.

E la Francia? E’ partita lancia in resta contro Assad e adesso deve ripiegare per necessità. E’ stata lasciata sola dagli alleati europei (sei Tornado fotografici e una nave appoggio non sono un vero impegno militare da parte di Berlino) e deve basarsi sempre più sugli Stati Uniti da una parte e, bon gré mal gré, sulla Russia. Hollande è stato punito da un elettorato malmostoso, incerto, impaurito. Ormai il suo declino sembra inarrestabile, ma almeno nessuno potrà accusarlo di codardia o di avventurismo inconsistente (come Sarkozy in Libia).

E gli altri europei? David Cameron è sceso in campo (e anche su di lui pesa il pasticcio libico), però a questo punto le truppe britanniche si metteranno in linea con quelle americane.

L’Italia si è subito tirata fuori e adesso si offre a Putin, pronta a cancellare le sanzioni, per affrontare il caos libico (si dice che Abu Bakr in persona si sia rifugiato a Sirte per riprendersi dalle ferite). La Spagna sta a guardare. L’est è sempre più allarmato dal ruolo di Mosca e vuole chiudere definitivamente le frontiere.

Ash Carter ha detto la verità, dunque, ma non basta. In ogni caso, il Pentagono ha messo anche la Casa Bianca di fronte a una scelta definitiva. Ogni presidente, mentre si avvicina la fine del suo mandato (ancor più quando sui tratta del secondo mandato) sogna di restare nella storia. Ebbene, Obama sarò ricordato come il basileo Costante II che perse 500 navi e si fece strappare la Sicilia o come Carlo Martello che ha spezzato a Poitiers la scimitarra di Abd al-Rahman?


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