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Ecco come Isis ha messo le mani sui dollari dell’Irak

Il Califfato si è inserito tra le dinamiche che regolano la vendita all’asta dei dollari tenuta dalla Banca centrale dell’Iraq, ottenendone circa 25 milioni di dollari al mese di profitto. Su Formiche.net si era già parlato della novità nel sistema di finanziamento del gruppo jihadista, quando si raccontava dell’uccisione del leader delle finanze dell’Isis, Abu Salah, ritenuto da alcuni esperti iracheni l’uomo che ha studiato il sistema per ottenere tali profitti.

Nibras Kazimi, esperto di Iraq e conoscitore dello Stato islamico fin dai tempi della sua fondazione (cioè nove anni fa, quando il gruppo era guidato ancora da Abu Musab al Zarkawi), ha spiegato sul suo sito come funzionano queste dinamiche. E Daniele Raineri sul Foglio ha aggiunto diversi dettagli, perché lo scenario che si sta aprendo sotto gli occhi dei ricercatori (e finito già tra le inchieste del Tesoro americano e della Federal Reserve), rischia di spostare l’attenzione dal mondo del petrolio, ritenuto finora la principale fonte di finanziamento del gruppo: gli americani stimano che il traffico di greggio frutti un giro d’affari pari a 400 milioni di dollari l’anno, ora le fonti nell’intelligence e nelle banche dell’Iraq su cui si base lo studio di Kazimi, parlano di numeri che sfiorano i 300 milioni di dollari nei primi dodici mesi di questa nuova attività finanziaria dell’Isis.

LO SCHEMA OPERATIVO

La dinamica sfruttata dallo Stato islamico è quella “legale” che muove il  commercio di dollari americani, dove il meccanismo regolatore è fornito dalla Banca centrale dell’Iraq, che vende moneta alle banche private, le quali a loro volta rivendono la valuta ai clienti sul mercato. Queste banche locali spesso si avvalgono della collaborazione di molti istituti di cambio sparsi per il paese, la cui trasparenza e correttezza è in molti casi opinabile. Il dollaro è un prodotto sicuro, ha una richiesta continua, e dunque per questo il cambio di valuta rappresenta un settore molto redditizio: il guadagno sta nella differenza del prezzo di acquisto pagato dagli istituti e quello di rivendita ai clienti. Spiega Kazimi che in questo momento in Iraq la richiesta della moneta statunitense è molto elevata, a causa del fatto che diverse società di cambio hanno avanzato grosse richieste di denaro con il solo fine di speculare sul cambio: dai dati del ricercatore, soltanto il 20 per cento della domanda di dollari è reale, il resto è rappresentato da questo meccanismo di acquisto fasullo per assicurarsi il bene e poi regolarne le dinamiche di vendita. Lo Stato islamico è riuscito ad inserirsi tra i nodi del network organizzato, grazie ad un investimento iniziale di circa un miliardo di dollari (spesi per creare una propria struttura e foraggiare intermediari affidabili): i soldi, sottratti nel 2014 dalle casse delle banche di Mosul (di cui si era parlato molto), sono stati prima messi al sicuro in Giordania, dove il confine è labile, e poi fatti rientrare verso Ramadi (città oggetto in queste ore delle mosse finali di un’importante offensiva progettata dalla Coalizione americana in collaborazione con l’esercito iracheno e le milizie sciite, per toglierla dal controllo del Califfato). Raineri sul Foglio aggiunge un dettaglio da non trascurare, che spiega come mai questo sistema è possibile e difficile da sgominare: «Questo stesso meccanismo speculativo è usato da molti altri investitori, compresi alcuni partiti iracheni, crimine organizzato incluso quello legato al traffico di droga, e alcuni grandi fondi del Golfo persico». Il giornalista, molto esperto del gruppo di Abu Bakr al Baghdadi, spiega che questo «vuol dire che c’è poca voglia di interrompere il ciclo dell’arricchimento, perché lo Stato islamico ne beneficia ma è un giocatore marginale rispetto ad altri grandi investitori».

IL RUOLO DI ABU SALAH

Secondo Kazimi, questa raffinata operazione di trading finanziario, che porta i baghdadisti su un livello ancora più alto di organizzazione, è stata progettata e supervisionata dal leader ucciso a fine novembre in un raid aereo americano in Iraq. Secondo il colonnello Steven Warren, portavoce della missione americana “anti-IS” Inherent Resolve, che annunciò l’eliminazione di quello che era considerato il capo dell’intero network finanziario del Califfato durante una conferenza stampa tenuta da Baghdad, dov’era in visita alle truppe, l’attacco avrebbe inferto un duro colpo alla struttura dello Stato islamico. Warren parla per il Pentagono, che ritiene Abu Salah difficilmente sostituibile nel suo ruolo. Anche Hisham al-Hashimi, ricercatore iracheno tra i più esperti al mondo sulle questioni del Califfato, ritiene Abu Salah il progettista materiale del meccanismo e complicato da sostituire. Difficile dire se sia davvero così (il gruppo ha dimostrato ampia versatilità e adattamento), ma la questione apre uno scenario ancora più preoccupante. Scrive Raineri: «Pensate allo Stato islamico come a un fondo sovrano molto liquido con una causa sociale precisa, il terrorismo islamista, e filiali sparse in molti paesi». I fondi sovrani sono gli investimenti che alcuni governi fanno con le proprie eccedenze in valuta estera: un’ulteriore testimonianza di come lo Stato islamico si comporti più come uno stato che come un gruppo terroristico.

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