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Licio Gelli sulle nuvole

Le cose cambiano anche da noi, quassù, non solo da voi, laggiù. Non era mai accaduto, o almeno non avevo ancora visto nei settecento anni e più che sono trascorsi dal mio arrivo, che qualcuno ci raggiungesse procurando tanto scompiglio com’è appena accaduto con lo sbarco di uno che si è presentato come Licio Gelli.

Gelli chi? Gli ho chiesto, un po’ come da voi fa Matteo Renzi, a Palazzo Chigi, al Nazareno e dintorni, quando gli nominano qualcuno che lui davvero non conosce, o finge di non conoscere, tanto poco lo considera. Oh, bischero, non dirmi di non sapere chi sono stato sulla terra per novantasei anni, mi ha risposto piccato. Anzi, piccatissimo.

Io continuavo a non capire. Non a fingere di non capire, ma a non capire davvero. Può accadere anche quassù, a dispetto dello stato di grazia che ci è riservato.

Spazientito, lui ha alzato la voce ed è tornato a darmi del bischero, per cui ho cominciato a sospettare che fosse stato un toscano come me, birichino come me, ma alla fine graziato, sempre come me, da un Papa troppo buono. D’altronde, ne avete adesso uno così misericordioso – magari non con la Curia – da avere appena aperto un Giubileo straordinario dedicato proprio alla misericordia. Un Papa che, dovendo darsi un nome d’arte sacra, come hanno fatto tutti i successori di Pietro, ha scelto quello mitico di Francesco. Al quale nessuno aveva prima di lui osato pensare come a un modello.

Toscano come fui io? Gli ho chiesto. E lui: si, toscano di Pistoia, ma di Arezzo per adozione. Però, visto dove ci troviamo, e le nuvole sulle quali galleggiamo, mi puoi chiamare come tanti e per tanto tempo mi hanno chiamato laggiù per i gradi che avevo in una loggia che sapeva mescolare anche il diavolo e l’acqua santa, col conforto e la collaborazione di fior di monsignori, potenti quanto e più dei laici a me volontariamente sottoposti. Una loggia massonico-cristiana chiamata P2, che fece cadere governi, dimettere ministri, licenziare giornalisti, impazzire uomini e donne, come la povera Tina Anselmi, convintasi alla guida addirittura di una commissione parlamentare d’inchiesta su di me che io fossi il vero Belzebù. Altro che il povero Giulio, chiamato così dagli avversari, ma anche da amici ammirati della sua furbizia.

Ma Giulio chi? Gli ho chiesto. E lui, sempre più spazientito e deluso dalla mia ignoranza o sprovvedutezza: Giulio Andreotti, naturalmente. Un amico che potevo chiamare senza passare per alcuna segreteria. Uno statista coi fiocchi, cresciuto d’altronde alla scuola di Alcide De Gasperi e pari ai suoi tempi forse solo ad Amintore Fanfani, col quale purtroppo s’intendeva poco, per quanti sforzi io facessi, nel mio piccolo, per farli andare d’accordo.

Va bene. Ho capito che sei stato un uomo importante, ed anche temuto, com’è giusto o inevitabile che capiti a chi sa il fatto suo. Anch’io, del resto, lo sono stato. Temuto a tal punto da essere scambiato per un brigante assassino, fino a quando il Papa in persona non si decise a coprirmi con il suo mantello protettivo. Un mantello che mi avrebbe portato quassù, ma che non impedì laggiù di continuare a indicarmi come un bandito. Un po’ come temo – gli ho detto- che debba capitare da quelle parti pure a te, anche ora che sei arrivato quassù, dove pertanto ti dò il benvenuto. Ma dimmi piuttosto come vorresti che ti chiamassi qui anch’io, come i tuoi amici e subordinati facevano laggiù. E lui, a voce non alta ma altissima e sillabando: ve-ne-ra-bi-le.

Non ci crederete, ma a quella parola è seguito qualcosa che, come vi dicevo, non avevo mai visto quassù. L’Altissimo per fortuna ha fatto finta di niente, rimanendo zitto e invisibile. Ma sono spuntati fuori in tantissimi dalle nuvole: tutti a sfilargli davanti per fargli festa. Qualcuno anche per ringraziarlo di averne a suo tempo occultato il nome nella lista della P2 risparmiandogli un bel po’ di guai in quel poco o molto che gli rimaneva da vivere. Non vi faccio i nomi per rispettare la misericordia del vostro Giubileo.

Esaurita l’inedita processione, mi sono permesso di avvicinarmi per dargli un consiglio. Quassù – gli ho detto – di venerabile ce n’è uno solo. Non ci riprovare. Cercati un altro nome d’arte per evitare di riprecipitare laggiù, stavolta tra le fiamme dell’Inferno.

Ghino di Tacco

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