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Le sfide dei manager nelle aziende familiari

Di Gian Maria Gros Pietro

Tra i molti interrogativi che nascono dalla lettura di questo libro-ricerca, alcuni sono decisamente rilevanti. Soprattutto per l’Italia, il paese delle imprese non grandi. È vero che le imprese famigliari rappresentano una forma recessiva di impresa? Che la struttura famigliare ostacola la crescita dell’impresa? Che di conseguenza le imprese famigliari, avendo difficoltà a raggiungere le dimensioni richieste dalla globalizzazione dei mercati, sono destinate a scomparire, o comunque a costituire una frangia marginale e caduca del sistema produttivo?

La risposta che sembra emergere dal libro è decisamente negativa, anche se con diversi accenti da parte dei protagonisti intervistati e degli studiosi citati. E’ negativa partendo dall’evidenza, documentata dal libro, che non poche tra le maggiori imprese mondiali sono sottoposte a un controllo famigliare: la più grande per fatturato, Wal Mart, è per l’appunto una impresa famigliare. Non è quindi vero che la famiglia impedisce all’azienda di crescere, o almeno non sempre. Per contro, la famiglia X Manager di famiglia mette spesso a difesa dell’azienda una volontà di resistenza, anche nelle circostanze più avverse, che pare sconosciuta alle imprese a capitale diffuso. Nella crisi che colpì l’industria automobilistica americana dopo il 2008, l’unica delle tre grandi case di Detroit che non fu costretta a ricorrere al soccorso dello Stato, e ai connessi condizionamenti, fu la Ford, che registra tuttora la presenza determinante, nel capitale e nel board, della famiglia del fondatore.

Una presenza che divenne forza di resistenza nella drammatica riunione di famiglia dalla quale, come il libro racconta, scaturì la decisione di non cedere, di raccogliere le forze e di difendere l’azienda, anche attraverso il ricorso a manager esterni. Non è un caso che la storia dell’industria automobilistica abbia registrato un avvenimento non molto dissimile, in un tempo non molto distante, in Italia. Dopo la scomparsa di Gianni e Umberto Agnelli un’altra famiglia imprenditoriale decise di non cedere, raccolse le forze per investire, ad alto rischio e in un momento difficilissimo, nell’azienda in cui credeva, anch’essa ricorrendo a un manager esterno. Il fatto veramente eccezionale è che la stessa azienda pochi anni dopo sia stata protagonista del recupero di Chrysler, una delle società automobilistiche messe sotto la tenda ad ossigeno dall’Amministrazione Obama.

La famiglia può volere (non sempre accade) difendere a tutti i costi l’azienda in cui si identifica, sia perché rappresenta per essa un valore non soltanto finanziario, sia perché ne conosce meglio degli esterni le capacità di recupero. Volontà di questo tipo difficilmente possono essere espresse nelle società a capitale diffuso, in cui i manager hanno convenienza, e spesso sono obbligati, a decidere in base ai valori correnti di scambio degli asset che hanno sotto mano, facendoli prevalere su ogni considerazione di lungo termine. E nelle quali gli azionisti non attribuiscono alle proprie azioni nessun altro valore rispetto a quello di quotazione, e sulla base di esso prendono decisioni quasi sempre irreversibili. Ci si deve chiedere: questa volontà di resistenza, che le società famigliari dimostrano di poter esprimere in misura maggiore rispetto a quelle che fanno esclusivamente riferimento alle valutazioni di mercato, è da considerarsi utile al benessere collettivo, o è invece il mero esercizio di un potere direzionale e discrezionale in qualche misura contrapposto ai meccanismi di mercato? La risposta non può essere univoca e rimanda alla qualità dell’azione imprenditoriale che l’azienda famigliare è in grado di esprimere.

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Nel caso che la famiglia voglia assicurare la permanenza di un proprio membro al vertice aziendale, essa si deve far carico della formazione manageriale di un certo numero di potenziali candidati; del processo di scelta di chi deve detenere temporaneamente il comando; del meccanismo di successione; della compattezza famigliare a sostegno del prescelto o della prescelta. Il compito si risolve da sé per il fondatore; spesso costui decide senza problemi il anche primo passaggio generazionale; ma in seguito, con il succedersi delle generazioni e con l’allargarsi della famiglia, la scelta del successore diviene un processo più delicato, che può richiedere regole, spesso non scritte, ma talvolta invece formalizzate e magari incorporate in apposite strutture giuridiche e societarie. Alcune famiglie imprenditoriali hanno sviluppato, in più, una loro specifica etica imprenditoriale, che è parte costituente di una più ampia etica di famiglia. In questi casi si percepisce meglio la dimensione e la profondità del confronto tra le due istituzioni, azienda e famiglia, e anche il fatto che probabilmente etiche famigliari differenti affrontano in modo diverso, e con diversa probabilità di successo, il compito di tramandare l’azienda tra le generazioni. Le famiglie che hanno come regola di porre sempre propri membri al vertice operativo, e magari di preferirli per le prime linee dirigenziali, hanno un particolare problema, come sottolinea Paolo Scaroni: i dirigenti di valore capiscono che lì la carriera ha un tetto, per superare il quale bisogna uscire, e agiscono di conseguenza, non entrando in quelle aziende o uscendone presto.

Tali aziende possono fungere da “acceleratori di carriera” per giovani manager che in esse accedono rapidamente a posizioni esecutive per poi passare in aziende più grandi; ma in tal caso l’azienda famigliare si deve attrezzare per attrarre giovani talenti e per sostituirli periodicamente. Un tema che affiora in tutto il libro è la distinzione fra manager e imprenditori (intendendo per tali coloro che nell’azienda rischiano il proprio patrimonio), così chiara nella letteratura manageriale e nella pratica delle società a capitale diffuso, ma talvolta non così nettamente percepita nelle aziende famigliari. Beninteso, in qualunque azienda famigliare tutti sanno quali persone fanno parte della famiglia imprenditoriale e quali no, ma spesso non vi è chiarezza nella distinzione dei ruoli, quello dei manager e quello degli imprenditori, perché molti membri della famiglia svolgono contemporaneamente funzioni che appartengono ai due ruoli. La distinzione invece è fondamentale, perché i due ruoli rimandano a profili diversi, anche se non incompatibili tra di loro, in linea di principio. Il manager deve possedere “almeno” le competenze specifiche che sono tipiche delle mansioni che gli vengono affidate, e man mano che sale verso i livelli aziendali più elevati deve dimostrare in misura crescente di avere visione del business e del suo futuro, nonché capacità di leadership: a chi sta al vertice dell’organizzazione viene richiesto non tanto di fare le cose, quanto di saperle far fare (to manage means to get things done, dice un vecchio detto della letteratura manageriale, nel senso che all’azienda le competenze non bastano, a un manager si richiede la delivery).

L’imprenditore, per contro, sebbene molto spesso, soprattutto nelle aziende giovani, abbia alle spalle una storia in cui ha dimostrato di possedere competenze professionali, visione e leadership, può gradualmente servirsi di collaboratori che apportino tali qualità; ma lui, in prima persona, deve possedere, oltre al capitale, “almeno” la volontà di rischiarlo per una missione. Per andare al nocciolo, ciò che non può mancare al manager è la professionalità, ciò che non può mancare all’imprenditore è il coraggio. La famiglia imprenditoriale può trovare sul mercato tutti i tipi di professionalità, ma non può trovarvi il coraggio, se le manca. Perciò la prima cura dell’azienda di famiglia deve essere quella di salvaguardare l’espressione dell’imprenditorialità, intesa come voglia di fare impresa, favorendone la condivisione più larga possibile da parte dei membri della famiglia stessa. Anche l’inclusione, o meno, nell’azienda, di membri della famiglia (che porta alla commistione in capo alla stessa persona di ruoli imprenditoriali e manageriali) va vista in questa luce: può allargare il consenso presso gli inclusi, ma può ridurlo se i risultati non convincono tutti. Senza mai dimenticare che l’azienda può assumere e licenziare tutti i manager che vuole, ma deve essere molto attenta quando va a toccare i componenti della sfera imprenditoriale.

La lettura di questo libro-ricerca conduce alla convinzione che la distinzione tra aziende famigliari e aziende a capitale diffuso è degna di grande considerazione. Alcuni dei problemi che sono al centro dell’attenzione del governo delle grandi imprese – per non citarne che alcuni: l’autoreferenzialità del management, l’eccesso dei compensi, l’insensibilità verso i valori non monetizzabili – vengono affrontati in modo molto diverso nei due ambiti. Le public companies investono molto nella governance, in ciò incitate anche dai legislatori e dai regolatori dei mercati: concetti come checks and balances, independent monitoring, compensation disclosure, corporate social responsibility fanno parte di una cultura in continua evoluzione, che vede alcune società italiane ai primi posti a livello internazionale per impegno e risultati raggiunti. Obiettivo di quell’impegno è di discutere apertamente, tra coloro che a livello mondiale si occupano di corporate governance, quali indirizzi sia opportuno assumere in generale, e al contempo aprire il confronto con tutti gli stakeholders di ciascuna società per definire quelli più confacenti alla società stessa. Dal canto loro le aziende di famiglia, soprattutto quando dedicano adeguata attenzione alla funzione imprenditoriale, distinta da quella manageriale, dispongono di strumenti ben più diretti e potenti per affrontare quei problemi.

I casi di imprenditori emergenti di grandissimo successo, anche italiani, che intraprendono cammini nuovi nelle relazioni con i clienti, i dipendenti, la società e la sfera non economica, dimostrano che l’azienda famigliare, quando ha elaborato una propria etica imprenditoriale, è in grado di tradurla nell’attuazione con un’efficacia difficilmente eguagliabile. Nel momento in cui il trionfo totalizzante della produzione industriale orientata al mercato pone il problema di controllarne l’evoluzione, le aziende di famiglia possono essere parte della soluzione.



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