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Il tonfo di Hollande e le mosse di Renzi

Nella Roma blindata e al tempo stesso rinfrancata dall’apertura di quello che è felicemente definito “il Giubileo dei due Papi” per la partecipazione anche di Benedetto XVI all’apertura della Porta Santa della Basilica di San Pietro, spalancata dal successore Francesco; ma anche nella Milano reduce dagli 11 minuti di applausi alla storica eroina cristiana Giovanna d’Arco, rappresentata nella versione verdiana alla prima del teatro protettissimo della Scala, il presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi ha fatto quella che si potrebbe definire la mossa dello scacco matto.

Egli è riuscito a spiazzare tutti sia con una presenza data prudentemente per incerta sino all’ultimo momento, sia con una reazione tanto tempestiva quanto scaltra alla prevedibile ma ugualmente significativa vittoria della zia e della nipote Le Pen al primo turno delle importanti elezioni amministrative francesi. Che non garantiscono certamente l’approdo della zia Marine all’Eliseo, dove è probabile che riesca a tornare Nicolas Sarkozy, a dispetto dei tanti errori commessi in passato, ma segnano di sicuro l’avviso di sfratto al presidente socialista François Hollande.

Renzi non solo non intende rinunciare alla sua presenza sempre in prima fila, a dispetto di quelli che lo dipingono o vorrebbero in difficoltà, e ne stanno contestando la doppia carica di governo e di partito, ma ha spiazzato avversari dichiarati e occulti cavalcando nel modo per lui più favorevole lo sgomento della sinistra più tradizionale e agguerrita di fronte all’avanzata della destra francese.

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In particolare, anziché aderire alla solita ricetta delle maggioranze o combinazioni di quella che una volta si chiamava l’unità antifascista, anche quando non c’era proprio il fascismo o solo un suo travestimento da fronteggiare sul versante opposto, il presidente del Consiglio ha tirato vigorosamente le orecchie ai gestori dell’Unione Europea: più e meglio di quanto avessero voluto o tentato di fare prima di lui, alla guida dei governi italiani, Romano Prodi, Silvio Berlusconi ed Enrico Letta, nell’ordine in cui si erano succeduti a Palazzo Chigi.

L’elenco non comprende l’ex tecnico, ora senatore a vita Mario Monti, che in quel palazzo arrivò nell’autunno del 2011, rimanendovi sino alla primavera del 2013, per compiacere al massimo la gestione franco-tedesca, o tedesco-francese, come sarebbe più corretto definirla, dell’Unione Europea. Compiacerla al punto – mi permetto di ricordare – che alla fine del 2012, mentre si preparava a partecipare con un suo partito alle elezioni politiche dei mesi successivi, egli motivò con la necessità di non disorientare i partner europei, più in particolare la Commissione esecutiva di Bruxelles, il no alla proposta di abolire la tassazione delle prime case. Eppure il gettito del prelievo fiscale su tutto il settore immobiliare si era rivelato superiore al previsto. E superiore esattamente nella misura dei quattro miliardi circa di euro incassati appunto per le prime abitazioni.

In pieno scontro con i referenti di Bruxelles e Berlino, sia pure mitigato con dichiarazioni allusive e rinvii a decisioni successive, proprio sul terreno della detassazione delle prime case stabilita nella legge di stabilità all’esame del Parlamento italiano, Renzi ha commentato la carica antieuropeista della crescita della destra francese dicendo, testualmente, che con “la prevalenza della linea tedesco-centrica”, fatta di austerità, rigore contabile ad ogni costo, flessibilità più apparente che sostanziale, ”i populisti vinceranno nei paesi europei anche alcune elezioni politiche”, e non solo amministrative.

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Appare francamente difficile dare torto a Renzi, specie dopo che il governo parigino ha annunciato che in ogni caso si sente libero di violare ulteriormente i famosi parametri europei di bilancio per le maggiori spese imposte dalla guerra ch’esso è stato costretto a dichiarare e a condurre contro il fantomatico ma pericolosissimo Stato Islamico in armi contro la Francia, e gli altri paesi che stentano a prenderne atto a tutti gli effetti.

Il monito tempestivo di Renzi pone problemi particolarmente stringenti alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che è alla vigilia di un congresso del suo partito fra i più difficili. Un congresso al quale la cancelliera non arriva nelle condizioni di tutto riposo o vantaggio cui era abituata sino a qualche tempo fa, cioè sino a quando anche lei non è stata costretta a cogliere i frutti negativi del suo conclamato rigore e gli effetti di quello che sbrigativamente si chiama populismo, ma andrebbe forse analizzato diversamente.

Anche a costo di dare una volta tanto ragione a Marco Travaglio e al suo Fatto Quotidiano, è un po’ troppo facile e deviante liquidare come “populista” quella che purtroppo è una diffidenza o insofferenza crescente, e perciò “popolare”, da destra e da sinistra, verso il modo in cui da troppo tempo ormai viene gestita l’Unione Europea.


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