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Renzi non riesce a rottamare la demagogia ambientalista

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi

Con un emendamento calato all’ultimo momento nella Legge di stabilità, il governo di Matteo Renzi si è rimangiato le decisioni prese un anno in materia di trivellazioni petrolifere, quando le autorizzò su tutto il territorio nazionale e in mare, togliendo alle Regioni ogni potere in materia. Un dietrofront alla chetichella, quello del governo, ignorato dai giornaloni, ma eloquente sullo stato dei rapporti, a dir poco pessimi, tra Renzi e alcuni presidenti di Regione targati Pd, autentici cacicchi, in aperto conflitto con il segretario-premier. Tanto che ben dieci presidenti di Regione, dei quali otto del Pd, uno di Forza Italia (Liguria) e uno della Lega (Veneto), si sono coalizzati per presentare sei referendum contro le due leggi del governo Renzi che avevano liberalizzato le ricerche di idrocarburi: lo Sblocca Italia (articolo38) e il decreto Sviluppo (articolo 35).

Sostenuti dai movimenti ambientalisti e dalle Regioni a guida Pd (Basilicata, Abruzzo, Marche, Campania, Puglia, Sardegna, Calabria e Molise), nei mesi scorsi i sei referendum hanno ottenuto le firme necessarie per l’inoltro alla Cassazione, che li ha approvati il 30 novembre scorso. L’ultima parola spetta ora alla Corte costituzionale, che esaminerà i quesiti il 13 gennaio. Qualora fossero accolti, il governo dovrà fissare una data per lo svolgimento dei referendum popolari entro la prossima primavera. In questo modo, Renzi rischierebbe di trovarsi alle prese con una duplice tornata elettorale, non priva di difficoltà e di incognite: quella delle amministrative, dove sono in gioco i sindaci di città come Milano, Roma, Torino e Napoli, con prospettive incerte, e quella referendaria, in cui il governo si troverebbe ad avere come avversari addirittura dieci Regioni, di cui otto a guida Pd. Un incubo politico.

Così, per limitare i rischi, Renzi ha inserito nella legge di stabilità un emendamento che modifica lo Sblocca Italia e il decreto Sviluppo, nella speranza che la Consulta giudichi le correzioni sufficienti per annullare i referendum. In effetti, si tratta di correzioni pesanti su due punti chiave: viene infatti ripristinato il divieto di ricerca di idrocarburi entro 12 miglia dalla costa, e garantita la partecipazione degli enti locali alle decisioni in materia di ricerca ed estrazione di idrocarburi. Il presidente della Basilicata, Pietro Lacorazza (Pd), che ha fatto da coordinatore delle dieci Regioni, non ha nascosto la propria soddisfazione. Addirittura euforico il presidente della Puglia, Michele Emiliano (Pd), che nel sottolineare «la retromarcia» di Renzi, con il quale non ha mai legato, ha parlato di «una grande vittoria popolare».

Al coro si è unito anche Ermete Realacci (Pd), presidente della Commissione ambiente e lavori pubblici della Camera, ambientalista da sempre, il quale ha colto l’occasione per ricordare che l’emendamento affossa in modo definitivo il progetto Ombrina Mare, basato sulla perforazione di sei pozzi e sull’installazione di una piattaforma nell’Adriatico, a sei chilometri dalla costa abruzzese. Un progetto che da mesi era diventato il bersaglio preferito dei movimenti ambientalisti, oltre che un concentrato delle contraddizioni politiche interne al Pd: proposto e finanziato dal gruppo britannico Rockhopper, l’Ombrina Mare era stato approvato dal ministero dello Sviluppo economico appena il 9 novembre scorso, rigettando il ricorso e la richiesta di sospensione della Regione Abruzzo, che per fermare il progetto aveva istituito nella zona un parco marino. Tra gli altri progetti bloccati, i più noti sono la piattaforma Vega B nel Canale di Sicilia e le prospezioni in Adriatico della Spectrum Geo, società inglese, impegnata sui fondali che interessano cinque Regioni, dall’Emilia Romagna fino alla Puglia.

A questo punto l’Italia è l’unico paese al mondo ad avere vietato la ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia, mentre nel Nord Europa vi sono paesi che con il petrolio estratto vicino alle coste si sono arricchiti. Per Renzi, si tratta di una chiara sconfitta politica. Per limitarne la portata, è probabile che addebiti il blocco delle perforazioni al calo del prezzo del petrolio. Ma Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia, sostiene che il costo del petrolio estratto in Basilicata è di circa 20 euro al barile, mentre il 90% del petrolio importato dall’Italia viene da pozzi progettati quando il petrolio era quotato meno di 30 dollari al barile. E fare a meno degli idrocarburi sarà impossibile ancora per decenni, soprattutto per un paese come il nostro, che dipende per il 90% da petrolio e gas importati.

L’impatto economico del divieto di ricerca di idrocarburi introdotto con la legge di stabilità è più rilevante di quello delle quattro banche di cui si parla in questi giorni: basta considerare le migliaia di ingegneri, tecnici e operai già impegnati nei lavori di prospezione iniziati dopo lo Sblocca Italia, che ora perderanno il posto e lo stipendio, senza una lacrima sui giornaloni, né in parlamento. Purtroppo, ancora una volta la retorica anti-trivelle ha prodotto solo demagogia. E con i demagoghi non si va lontano, mai.



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