Ormai manca solo un mese all’insediamento di Mario Calabresi alla guida della Repubblica di carta, ma il fondatore continua a tenersi stretto il “mantello protettivo” che il direttore uscente Ezio Mauro, ospite di Fabio Fazio a Rai 3 il 6 dicembre, aveva già visto allungato anche sul suo successore.
Nemmeno nell’omelia laica della terza domenica d’Avvento Eugenio Scalfari ha voluto accennare ad un avvicendamento che pure si è rassegnato ad accettare al vertice del suo giornale, rinunciando all’originaria e ammessa tentazione di contestarlo nel modo più clamoroso possibile: l’interruzione o la riduzione della sua prestigiosa collaborazione.
L’avvento, rigorosamente al minuscolo, di Mario Calabresi alla direzione di un quotidiano dove, in verità, gli era già capitato di lavorare per due volte, assunto però non da Scalfari ma da Mauro, che ora – guarda caso – si accinge a passargli il testimone, non è stato considerato degno di comparire fra le “Piccole grandi cose” di cui il fondatore ha ritenuto di occuparsi annunciandole nel titolo di prima pagina. Con particolare riferimento – sempre nel titolo – alla “Francia nazionalista” e al raduno renziano della Leopolda: la ex stazione ferroviaria di Firenze dove la festa annuale degli amici del presidente del Consiglio è stata quest’anno guastata dai veleni diffusi all’esterno contro la ministra Maria Elena Boschi. Che si è presentata sorridente al pubblico, ma con tanto di stivaloni, al posto dei soliti tacchi a spillo, pronta forse ad usarli, all’occorrenza, contro chi ne reclama le dimissioni perché figlia e sorella, rispettivamente, di un ex vice presidente e di un dipendente della dissestata Banca Etruria. Ai cui clienti, come a quelli delle altre banche locali appena salvate dal governo, il ministro dell’Economia sta cercando di trovare il modo di uscirne il meno peggio possibile, comunque in tempo per evitarne una strage da suicidi.
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Pur deludente nella parte omissiva, almeno per chi si aspettava di trovare finalmente qualcosa sull’affare Calabresi, l’omelia scalfariana della terza domenica d’Avvento – stavolta di nuovo al maiuscolo – è un capolavoro professionale d’informazione su ciò che accade nei palazzi apostolici.
Scalfari è ormai un vaticanista imbattibile. Certamente per capacità di intuito e di lettura di ciò che accade oltre Tevere, ma anche grazie ai rapporti personali che ha voluto e saputo stringere con Papa Francesco, che lo riceve e lo chiama al telefono come un vecchio e fidato amico, non potendolo annoverare tra i fedeli, a meno di sorprese. Che in questa materia, per fortuna del Pontefice e per sfortuna del compianto Voltaire, non si possono mai escludere.
Grazie al “vaticanista” Scalfari sappiamo che lunedì 21 dicembre, troppo tardi per l’omelia laica della quarta domenica d’Avvento, ma in tempo forse per qualche commento straordinario sotto Natale, il Papa farà a lorsignori della Curia romana “un intervento più rivoluzionario del solito”: altro che “il latte e il miele” cui li avevano abituati i predecessori nel clima dolcissimo delle feste di fine anno. “Lo esamineremo – ha scritto Scalfari trattenendosi dalla voglia e dalla capacità di dirne di più già adesso – dopo averlo letto nel suo testo integrale”, non potendolo purtroppo ascoltare direttamente per il suo stato ancora laicale.
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Del fondatore della Repubblica di carta rimane comunque ineguagliabile, quasi come quella di Indro Montanelli, la capacità di farsi capire bene dai lettori, almeno quando vuole, senza ricorrere a parole e frasi involute, ed obbligare lo sprovveduto lettore a consultare i dizionari. L’opposto, per esempio, di quello che, pur abituato a leggerne di tutti i colori e di tutte le mode, mi capita di fare, spesso a vuoto, leggendo di sabato da qualche settimana sull’Unità una rubrica del pur intrigante e fantasioso Claudio Velardi. Che si sta forse vendicando della chiarezza impostagli per anni dal suo vecchio amico e compagno Massimo D’Alema: un altro al quale, anche nel dissenso politico, va riconosciuto il merito di dirle e mandarle a dire chiare, anzi chiarissime, a volte persino ferocemente chiare.
C’è stato bisogno di un paio di numeri della rubrica di Velardi per capire il significato di quel benedetto, o maledetto, “bias” scelto addirittura come titolo del suo appuntamento con i lettori. Bias inteso non come refuso di bios, ma come sinonimo – si è deciso a spiegare lo stesso Velardi – di “pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi, errori sistematici dei media”. Guai, per carità, a chiamarli giornali, agenzie, periodici, libri, radio, televisione.
Ma, chiarito il mistero del “bias”, il buon Velardi, senza alcuna pietà per il lettore, e per l’edicolante, si è avventurato a scrivere di “euristiche scontate”. E ad ammonire gli amici e compagni riuniti alla Leopolda che “nulla può far male quanto l’ingresso nel loop stanco dell’intermediazione”. Oddio, che è? Al sabato di Velardi sull’Unità continuo a preferire – scusate – il sabato leopardiano del villaggio.