Dopo la fine della guerra fredda e, soprattutto dall’inizio del secolo, con l’avvento al potere del partito islamico moderato AKP, i rapporti fra la Turchia e la Russia sono notevolmente migliorati. L’AKP fu visto dal Cremlino come un esempio da proporre alle minoranze islamiche russe, turbolente soprattutto nel Caucaso del Nord. La politica “pan-turchica” o “pan-turanica”, inaugurata dal presidente Turgut Ozal negli anni ’90 – mirante a estendere l’influenza di Ankara sulle repubbliche turcofone centrasiatiche – fu inizialmente considerata da Mosca un’indebita ingerenza in una regione che la Russia riteneva propria. Poi, le cose cambiarono. L’aumento della presenza turca in Asia Centrale, uno dei due pilastri (l’altro era quello di “nessun nemico alle frontiere”) previsti dalla politica turca della “profondità strategica”, fu considerata dal Cremlino un freno alla crescente influenza cinese nella regione. Il sostegno dato dalla Turchia alla rivolta cecena fu dimenticato.
La Turchia, pur non essendone entusiasta, ha accettato senza protestare l’annessione della Crimea e la perdita dei privilegi di cui godeva la popolazione tatara della penisola. I rapporti economici fra la Turchia e la Russia sono notevolmente migliorati. L’interscambio annuo si aggira sui 30-35 miliardi di dollari. Putin ed Erdogan avevano progettato di aumentarlo a 100 miliardi entro il 2023. L’anno scorso, quasi quattro milioni e mezzo di turisti russi si erano recati in Turchia. Mosca e Ankara stavano finalizzando un accordo per la costruzione di un mega gasdotto, il Turk Stream, sostitutivo del South Stream. La Turchia sarebbe divenuta l’Hub energetico dell’Europa. Il Rosatom sta già costruendo una centrale nucleare, con 4 reattori, ciascuno di 1.100 MWe. Nel primo decennio del secolo la Turchia sembrava perseguire una politica di allentamento dei suoi legami con la NATO e con l’UE. Con gli USA erano sorte tensioni: prima, nel 2003, quando non aveva concesso il transito sul suo territorio alle forze destinate ad attaccare da Nord l’Iraq di Saddam Hussein; poi, per la sua politica ambigua nei confronti dell’ISIS/DAESH, per la mancata concessione dell’uso delle sue basi aeree alla coalizione anti-ISIS a guida americana e per la sua opposizione ai curdi siriani, le cui unità di protezione del popolo (YPG) sono, con i peshmerga iracheni, le migliori fanterie di cui dispongono gli USA contro l’ISIS.
Permanevano però fra la Turchia e la Russia gravi contrasti per quanto riguardava la Siria. Il regime alawita di Basher al-Assad è sostenuto dalla Russia, oltre che dall’Iran, e avversato dalla Turchia. Ankara lo considera un ostacolo per l’attuazione di quanto resta della sua politica “neo-ottomana”, d’influenza in Medio Oriente. Ankara appoggia gruppi d’insorti a lei favorevoli, che invece la Russia considera terroristi da colpire come l’ISIS e l’al-qaedista Fronte al-Nusra. L’intervento russo ha reso impraticabile la proposta di Ankara di costituire zone di sicurezza a Sud del suo confine con la Siria, nella regione non occupata dai curdi, e di una no-fly zone.
Il contrasto, acuitosi con l’intervento russo in Siria, è scoppiato con l’abbattimento di un cacciabombardiere russo, che era sconfinato per qualche secondo il 24 novembre scorso sul territorio turco. La violazione dello spazio aereo turco, seguita da numerose proteste e avvertimenti, è stata considerata una provocazione da parte di Ankara, che aveva avuto l’incondizionato appoggio degli USA. Ha provocato una dura reazione da parte di Mosca, incluse sanzioni economiche.
L’escalation verbale è stata violentissima e rapida. La Russia ha subito accusato la Turchia di avere abbattuto l’aereo deliberatamente, infliggendole “una pugnalata nella schiena”. Ha aggiunto che l’ha fatto per proteggere il fiorente contrabbando di petrolio, che copre una cospicua parte dei fabbisogni finanziari dell’ISIS. Ha aggiunto che Erdogan e la sua famiglia gestirebbero direttamente tale contrabbando, traendone ampi profitti.
La Turchia ha respinto sdegnosamente tali accuse. Si rifiuta di scusarsi con la Russia. Afferma che la responsabilità dell’incidente è dei russi, che, nello loro megalomania non hanno tenuto conto delle denunce turche di precedenti sconfinamenti, ma ha continuato nelle sue provocazioni. Putin ha rifiutato di rispondere a una telefonata di Erdogan. Il primo ministro turco, Davutoglu, ha accusato i russi di bullismo e affermato di aver dato personalmente l’ordine di abbattere l’aereo. Il viceministro della difesa russo Antonov ha accusato la Turchia di doppiezza e il suo presidente di tradimento, essendosi arricchito con il petrolio dell’ISIS.
Insomma, è in corso un’escalation retorica difficile da frenare, malgrado l’interesse comune a evitare che degeneri in uno scontro, ad esempio a seguito dell’abbattimento per rappresaglia di un aereo turco da parte dei russi o di un secondo aereo russo da parte turca. I caratteri imperiosi dei due presidenti rendono loro impraticabile ogni compromesso. È in atto un vero e proprio braccio di ferro fra Putin ed Erdogan, due leader molto simili. Entrambi hanno tendenze autoritarie e, ormai prigionieri della loro retorica, incapaci o impossibilitati a fare un passo indietro. Considerano ogni compromesso un atto di debolezza, dannoso sul piano internazionale e soprattutto su quello interno. Il gioco è “a somma zero”. Entrambi sono portati a seguire la strategia del chicken game. Al di là di ogni ragionevolezza, dati i comuni interessi economici e le crisi delle rispettive economie. I ministri degli Esteri hanno cercato di buttare acqua sul fuoco. In particolare quello russo, Lavrov, dopo aver detto che l’abbattimento dell’aereo non provocherà lo scoppio di una guerra fra la Russia e la Turchia, ha incontrato il 3 dicembre quello turco a Belgrado, a margine della riunione dell’OSCE. Sembra che l’incontro non abbia prodotto risultati. È però positivo che ci sia stato. Per ora la situazione resta quella di prima.
(Prima parte; la seconda parte dell’analisi sarà pubblicata domani)