Mike Bloomberg, un ‘terzo uomo’ con licenza di vincere: quest’anno, l’ipotesi del terzo incomodo tra democratici e repubblicani pareva tramontata, dopo che erano rientrate le tentazioni solitarie sia di Donald Trump, deluso dalla freddezza nei suoi confronti del Comitato nazionale repubblicano, sia di Ben Carson. Entrambi avevano manifestato intenzioni ‘secessioniste’.
Ad agosto, in un’intervista al quotidiano The Hill, Trump accusava il partito di essergli stato “poco di sostegno”, diversamente da quanto accadeva quando era “un donatore” dei repubblicani. Sull’ipotesi di correre da outsider, Trump diceva: “Dovrò vedere come mi trattano i repubblicani. Se non sono corretti, la prenderò in considerazione”. A dicembre, Carson, allora in ascesa, minacciava, in un’intervista al Washington Post, d’andarsene “se il partito non rispetta la volontà degli elettori”.
Poi, entrambi hanno fatto marcia indietro: Trump, probabilmente, perché la corsa alla nomination gli s’è messa bene; e Carson, probabilmente, per la ragione opposta (il suo consenso sta evaporando e correre da solo sarebbe uno sfizio costosissimo).
Ora, l’ex sindaco di New York e magnate dell’editoria, un ebreo di 73 anni, ridà corpo all’ipotesi. Conscio che il ‘terzo uomo’, nella tradizione elettorale degli Stati Uniti, non vince, ma può far perdere. Lui, però, potrebbe essere l’eccezione, specie se i due maggiori partiti dovessero presentare candidati fortemente polarizzati, come Trump appunto e Bernie Sanders, il senatore ‘socialista’, lasciando un vuoto al centro.
Alle voci di candidatura di Bloomberg, i repubblicani reagiscono facendo spallucce: “Un problema per i democratici”. E Hillary Clinton si dice sicura di ottenere la nomination – nel qual caso, la candidatura di Bloomberg è meno probabile -, nonostante i sondaggi continuino a esserle sfavorevoli in Iowa e New Hampshire, i due Stati che aprono l’assegnazione dei delegati alla convention rispettivamente il 1° e il 9 febbraio. Sanders afferma che Bloomberg in campo gli garantirebbe la nomination, mentre Jeb Bush, di cui ci si ricorda sempre meno, non crede che l’ex sindaco si candidi. La Clinton ha intanto incassato nello Iowa l’endorsement del Des Moines Register, il maggiore media statale, che, fra i repubblicani, appoggia il senatore della Florida Marco Rubio: una doppia scelta molto ‘establishment’.
A parte il fatto che il ‘terzo uomo’ è una dizione imprecisa, perché sulla scheda elettorale vi sono sempre candidati di contorno, a partire da quello del Partito libertario, che però non vanno (quasi) mai oltre l’1% dei suffragi, la storia del terzo incomodo è intessuta di speranze e successi. Vediamo i dati salienti nel dopoguerra.
Nel 1968, George Wallace, governatore dell’Alabama, democratico e razzista, si presentò come candidato del nuovo Partito Indipendente Americano: sperava d’impedire al candidato d’uno dei due maggiori partiti di avere la maggioranza assoluta dei Grandi Elettori. Se la decisione fosse così toccata alla Camera, si poteva rimettere in discussione la politica federale anti segregazione. Wallace vinse in cinque Stati del Sud – è l’ultimo ‘terzo uomo’ ad avere conquistato almeno uno Stato -, ma il repubblicano Richard Nixon ottenne la maggioranza dei Grandi Elettori. Il candidato democratico Hubert Humphrey non ce l’avrebbe fatta neppure con i voti di Wallace.
Nel 1980, John Bayard Anderson, deputato repubblicano per vent’anni, si presentò al voto come indipendente: non vinse in nessuno Stato e non ottenne la maggioranza in nessuna circoscrizione, ma il suo 6,6% del voto popolare è la 6a prestazione per un ‘terzo uomo’ dall’inizio del XX Secolo, dietro il 27% di Theodore Roosevelt nel 1912, il 17% di Robert LaFollette nel 1924, il 19% di Wallace nel 1968 e di Ross Perot nel 1992 e l’8% ancora di Perot nel 1996. Nonostante Anderson, Ronald Reagan batté il presidente democratico Jimmy Carter, ‘azzoppato’ dalla crisi iraniana.
Nel 1992, e poi nel ’96, Ross Perot, un imprenditore del Texas miliardario, fondatore del Partito della Riforma, si candidò per scardinare il bipartitismo americano. Ottenne, soprattutto nel ’92, buon seguito – quasi un quinto del voto popolare -, ma non conquistò nessuno Stato. Fu però una delle cause della sconfitta di George Bush ad opera di Bill Clinton, perché gli sottrasse suffragi tendenzialmente repubblicani.
Nel 2000, Ralph Nader, avvocato, saggista, attivista ambientalista e predicatore dei consumatori, interprete della sinistra radicale, fu candidato alla presidenza dal 1996 al 2008, per i Verdi o come indipendente. Nel 2000, con il 2,7% dei voti popolari, fu determinante per la vittoria di George W. Bush e la sconfitta di Al Gore, che avrebbe conquistato la Florida e anche il New Hampshire con i suffragi di Nader.
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