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Che cosa accomuna l’Isis al comunismo

L’esercito iracheno ha riconquistato Ramadi. È una delle migliori notizie con cui abbiamo chiuso l’anno. Ma diciamoci la verità: per sbaragliare lo Stato Islamico servirebbe una massiccia invasione di terra e i risultati sarebbero, ben che vada, temporanei. Come ha evidenziato Barry Posen, direttore del MIT Security Studies Program, in un saggio recente, «i tentativi americani di riformare la politica di altri Paesi con la spada si sono infranti contro l’ostilità sciovinistica verso gli stranieri, alleanze locali inaffidabili, pratiche culturali profondamente radicate e la rozzezza dello strumento militare». E proprio questi «persistenti problemi» consigliano una strategia più limitata di «contenimento» che «richiede pazienza e resilienza e non promette una rapida e facile vittoria». L’Isis é riapparso, infatti, dopo che era stato già battuto durante il «surge» delle forze Usa in Iraq nel 2007. Poiché fino a quando i sunniti continueranno a sentirsi minacciati, le organizzazioni jihadiste si offriranno di «proteggerli».

Secondo George Kennan, che prospettò la strategia del contenimento nel 1946, Stalin aveva bisogno di un mondo ostile per legittimare il proprio dominio dispotico. E i bolscevichi usarono i dogmi del marxismo-leninismo come una «giustificazione per la loro istintiva paura del mondo esterno, per la dittatura senza la quale essi non saprebbero come governare», per «le crudeltà» e «i sacrifici che si sentirono in diritto di chiedere». Anche l’Isis usa una originale lettura dei testi islamici per giustificare lo stupro di bambini, il rogo dei prigionieri e propagare la sua ideologia attraverso la violenza. Certo, il paragone regge fino ad un certo punto. Ma l’idea di Kennan di «un’applicazione abile e vigile di contromisure» è valida anche per lo Stato Islamico. Il che significa contrastarne lo sviluppo sia con mezzi diplomatici che militari. Anche l’Isis, come l’Urss, finirà per crollare. Le sue promesse sono altrettanto fasulle e stenta a soddisfare persino le necessità umane più elementari. Nel frattempo, per gli Stati Uniti ed i loro alleati le cose da fare non mancano. Bisognerebbe, ad esempio, stabilire una No-fly zone sulla Siria settentrionale per proteggere il popolo siriano dai bombardamenti del suo presidente, visto che i raid di Bashar al Assad sono un’opportunità di reclutamento per l’Isis; schierare più uomini da impiegare in operazioni speciali; migliorare la condivisione dell’Intelligence ed aumentare il contingente militare in Iraq, a patto sia composto da arabi sunniti e non da «crociati».

Sappiamo però che questi sforzi non distruggeranno l’ideologia jihadista di cui si nutre lo Stato Islamico. Kennan constatò lucidamente che «il comunismo mondiale è come un parassita maligno che si nutre solamente di tessuti malati». Anche l’Isis si sta propagando nei tessuti malati di Stati deboli e nelle parti debilitate (come le banlieue parigine) degli Stati forti. È, simultaneamente, uno Stato totalitario che cerca di diffondere il suo «califfato» nelle regioni dove le strutture statuali sono più gracili e un’organizzazione terroristica globale che vuole spingere l’Occidente a contrattaccare.

È la strategia della «polarizzazione», illustrata nei testi jihadisti, che vuole spingere i musulmani l’uno contro l’altro, con l’obiettivo di cancellare la «zona grigia» dell’Islam moderato forzando i musulmani che vivono in Occidente a scegliere o l’Isis o l’apostasia, di alimentare le divisioni interne all’Occidente e volgere l’Occidente contro l’Islam. Sappiamo anche (lo ha ribadito Jessica Stern, della Boston University’s Pardee School of Global Studies) che il modo migliore per fare il loro gioco è quello di tacere che la maggior parte delle vittime dell’Isis sono musulmane; confondere l’ideologia dell’Isis con l’Islam; confondere le vittime della brutalità jihadista che oggi cercano disperatamente rifugio in Occidente con i carnefici dai quali stanno cercando di fuggire; mandare i 100mila soldati necessari per sconfiggere l’Isis in Siria e in Iraq, senza essere in grado, al tempo stesso, di affrontare i problemi dei musulmani sunniti privati dei loro diritti, lasciando così la porta aperta alla rinascita dell’Isis o di qualche altro gruppo analogo.

In fondo, le raccomandazioni di Kennan, formulate per una sfida completamente diversa, possono tornare utili. A cominciare dall’esortazione a «riconoscere ed analizzare in modo oggettivo la natura della minaccia» che abbiamo di fronte.


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