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Che cosa consigliano gli economisti Usa a Obama

Per un italiano che è andato nei giorni scorsi al più importante raduno di economisti del mondo, quello dell’AEA a San Francisco, la vera sorpresa è stata che i più famosi economisti americani, sia di propensione “democratica” che “repubblicana”, hanno apertamente parlato della debolezza dell’andamento della crescita economica americana e chiesto al futuro presidente, che uscirà dalle elezioni di novembre, di procedere con riforme incisive per accelerarla. Ed i rimedi invocati sono grandi investimenti in infrastrutture, avanzamento tecnologico, innovazione, formazione delle forze di lavoro all’uso di tecnologie avanzate, istruzione dei giovani, modifiche della tassazione delle imprese e dei più alti redditi, innalzamento a 67 anni dell’età di pensionamento, riforma del sistema finanziario che non canalizza bene il risparmio verso gli investimenti produttivi, miglior uso della vigilanza macroprudenziale sulle banche, riduzione del rapporto debito pubblico/PIL. Il campo, invece, si è diviso quando si è trattato di aumentare la spesa pubblica per rafforzare la debole domanda globale per gli effetti sugli equilibri della finanza pubblica, mentre molte analisi sono state presentate sulle disuguaglianze di reddito, sulle cause e sui modi di affrontarle senza la solita ridistribuzione a chi meno ha.

Una sorpresa, perché sembrerebbe che l’economia d’oltreoceano soffra degli stessi mali che attanagliano quella europea e particolarmente quella italiana, e che la cura sia simile. Ma non è così. Le posizioni di partenza e il contesto differiscono significativamente e così anche l’intensità della terapia e in parte le aree su cui intervenire. La crescita americana viaggia da almeno un biennio al ritmo tendenziale del 2,4% all’anno, avendo superato dal 2011 il livello di produzione pre-crisi, la produttività continua ad avanzare (0,6% nel 2015), sebbene meno rapidamente che in passato, la disoccupazione è al livello considerato quasi di pieno impiego (attorno a 4,7%), l’economia è affetta da minori rigidità, e il livello tecnologico è già tra i più avanzati al mondo. Quando si avverte la crisi, inoltre, il sistema politico si è mostrato capace di prendere le misure necessarie in tempi brevi. Tuttavia in questa campagna presidenziale nessuno dei candidati vuole parlare di riforme del tipo proposto dagli esperti, soprattutto perché l’americano medio non sente oggi alcuna crisi, né guarda alle linee di tendenza futura, che segnalano un affievolimento dell’impulso a crescere di fronte all’emergere di nuovi grandi concorrenti in Asia e di tecnologie a minor impiego di lavoro.

In Italia, in contrasto, il prodotto nazionale è ancora a un livello di circa il 9% al di sotto di quello di otto anni fa, e cresce dallo 0,7% nel 2015 al 1,4% atteso per il 2016 e gli anni successivi, il che significa che solo all’inizio del prossimo decennio recupererà i livelli pre-crisi. Attualmente, inoltre, l’abbassamento del tenore medio di vita è evidente in ogni indicatore, gli investimenti privati ritardano, bilancio e debito pubblici sono ancora ad alto rischio d’insostenibilità, se venisse meno il sostegno della BCE, e ancor più preoccupante la produttività, comunque la si misuri (quella del lavoro e quella della combinazione dei fattori produttivi), ristagna (tra 0 e 0,4% per anno nel 2016-17) dopo il prolungato cedimento iniziato nel 2001. Sui versanti dell’istruzione, delle competenze professionali, della ricerca e dell’innovazione il Paese è distaccato da gran parte dei paesi a maggior reddito pro-capite con un divario che non accenna a ridursi.

Quindi non consola che il distacco sia meno profondo verso alcuni paesi europei, se si considera che il Paese ambisce a rimanere nel G7. Il messaggio che viene da San Francisco è dunque che l’Italia deve impegnarsi ancor più a fondo nel cambiare il sistema economico. Invero, una brutta sorpresa anche per quegli italiani che pensano che con le timide riforme fatte nell’ultimo biennio il compito sia completato. Al contrario, se gli USA, grande concorrente sui mercati mondiali, con un’economia che va molto meglio di quella europea, attuano queste riforme, l’Italia per reggere il confronto economico deve riformare molto di più, in quanto parte da una posizione molto più arretrata e con una prospettiva demografica sfavorevole a causa del maggior invecchiamento della popolazione. Ma i politici italiani hanno capito bene la lezione da trarre dagli economisti americani, e avranno coraggio e abilità di farla.



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