Riceviamo e pubblichiamo
La lotta contro la corruzione, lanciata ufficialmente sei mesi fa da Xi Jinping in tutti gli apparati del potere e del Partito cinesi, è un fatto strategico e geopolitico di straordinaria importanza.
Il segretario del Pcc vuole una radicale guerra alla corruzione soprattutto per alcuni motivi, che riguardano sia la posizione attuale della Cina nel mondo sia la sua unità e stabilità.
Vediamoli: a) tutte le reti di potere corrotte, in Cina come altrove, deformano i fondamentali dell’economia e facilitano la penetrazione dei capitali speculativi stranieri. E la trasformazione dei redditi in rendita speculativa.
Inoltre, b) la corruzione rende autonome le varie cerchie di potere periferiche o secondarie rispetto ai vertici centrali nazionali e di partito. La corruzione è la manifestazione di una rivolta illegale delle periferie contro il centro politico e amministrativo.
Ogni leader cinese corrotto è, come sempre accade in questi casi, un potere autonomo rispetto alla catena di comando del Partito e dello Stato.
Peraltro, ogni rete corrotta crea centri di potere occulto che non rispondono ai normali canali di comunicazione e controllo del Partito e dello Stato cinesi.
Le reti corrotte, infine, c) depauperano le riserve di liquidità cinesi perché sono interessate, come sempre accade in questi casi, all’uscita dei loro capitali illeciti dal Paese con la massima rapidità e sopportando costi anche elevati.
Ogni tipo di corruzione genera una irrazionalità incontrollabile nelle analisi costi-benefici.
Peraltro, la contabilità pubblica cinese è basata sui cicli di Leontiev, ovvero sui criteri di valutazione in equilibrio di input-output, e ogni transazione occulta o illegale deforma ogni calcolo del genere.
Xi Jinping quindi vorrebbe liberare la Cina dalla sua antica tradizione di confusione tra interessi privati e cariche pubbliche. Un Paese dove il centro non conosce le sue periferie ed è destinato, in questo modo, a indebolirsi sempre più, come nelle tradizionali dinastie imperiali.
Mao Zedong, delle cui scelte politiche perfino il riformatore Deng Xiaoping diceva che “sono per il 70% giuste e per il 30% sbagliate”, è stato un fortissimo accentratore, nella linea dell’imperatore, che al Grande Timoniere piaceva molto, Shi Huangti, quello dell’”esercito di terracotta”, il primo unificatore della Cina han dopo la fase degli “Stati combattenti”.
Xi Jinping non vuole la parcellizzazione della Cina, ecco perché lotta contro la corruzione.
Xi vuole combattere la corruzione perché desidera costruire un sistema politico unitario, forte rispetto alle tensioni economiche e politico-militari che stanno per apparire all’orizzonte, in Asia e altrove, operando con una catena di comando snella, centralizzata, priva di interessi economici personali che possano essere utilizzati dai concorrenti o dagli avversari della Cina.
Lottare contro la corruzione, per Xi, vuol dire soprattutto ristabilire il primato dell’interesse nazionale.
Ogni azione corruttiva, come insegna la teoria economica attuale, da Lambsdorff a Wade, determina una allocazione irrazionale e pericolosa delle risorse disponibili, che pone fuori mercato le opzioni migliori e gli investimenti più razionali per favorire i “costi di intermediazione” e, infine, la rendita.
Ogni sistema economico e politico che generi un alto tasso di corruzione è destinato quindi all’autodistruzione.
E Xi Jinping, ovviamente, unifica le due lotte: quella contro i burocrati corrotti e l’altra, contro i suoi nemici interni al Partito e allo Stato.
Probabilmente, solo Mao Zedong durante la “Rivoluzione Culturale” era riuscito a concentrare nelle sue mani tanto potere quanto oggi sta raccogliendo Xi Jinping.
È una fase in cui la Cina si predispone all’apertura definitiva al mercato-mondo, e la corruzione, si veda quello che è accaduto in Italia dopo il 1992, favorisce la globalizzazione cattiva rispetto alla mondializzazione “buona”, quella che favorisce l’espansione economica e produttiva delle Nazioni.
Quanto più la Cina dovrà aprirsi al mercato-mondo, tanto più essa dovrà costruire, quindi, un sistema politico affidabile, centralizzato, non influenzabile da ricatti, tentativi di corruzione, autonomi centri di potere legale o illegale.
Ne va della sopravvivenza stessa dello Stato e, soprattutto, del Partito Comunista Cinese.
La linea di Xi è stata esplicitata nel recente discorso di fine anno: garantire il successo delle riforme economiche che migliorano l’interazione tra la Cina e l’Occidente, stabilizzare lo yuan come moneta di riferimento globale, diminuire la dipendenza dell’economia cinese dal debito pubblico e privato, sostenere la Asian Infrastructure Investment Bank.
È evidente che nessuno di questi obiettivi può essere raggiunto senza una forte e continua lotta contro la corruzione.
Le attività corruttive aumentano la dipendenza delle attività economiche dal debito pubblico e privato, svuotano gli investimenti infrastrutturali che saranno decisivi per l’uscita della Cina dal suo isolamento geostrategico, non permettono infine il comando unitario e verticale del Paese, che sarà essenziale per vincere il confronto dentro la Shangai Cooperation Organization e con l’Occidente.
I “venti anni di opportunità” preconizzati da Deng Xiaoping sono ormai finiti e, se la corruzione dovesse permeare la società, la politica e l’economia cinesi l’Impero di Mezzo tornerebbe ai “cento anni di umiliazione”.
I dati della campagna anticorruzione indetta da Xi Jinping sono già rilevanti: oltre 100mila dirigenti del Partito e dello Stato sono già stati inquisiti; e nel 2014 la percentuale di quadri sanzionati è stata del 3,14%, ovvero sono stati giudicati corrotti 232mila dirigenti locali e centrali.
Gli “otto punti” stabiliti da Xi Jinping sono ormai noti in tutta la Cina: l’uso eccessivo di fondi per il cibo e le bevande, l’utilizzazione di fondi pubblici per viaggi privati, in Cina o all’estero, l’uso improprio dei veicoli in dotazione, le costruzioni non autorizzate, i pagamenti impropri o i benefici illeciti, i regali lussuosi fatti o ricevuti, i matrimoni o i funerali eccessivamente costosi, la violazione della disciplina sul posto di lavoro.
Sono queste le direttrici utilizzate dalla Ccdi (Commissione Centrale per l’Ispezione di Disciplina) l’agenzia del Pcc che opera autonomamente, ma sotto le direttive del gruppo dirigente di Xi Jinping.
E, senza una lotta decisa e definitiva alla corruzione, la globalizzazione cinese segnerà la fine della sua autonomia nazionale e della capacità del governo di gestire le sue scelte economiche. Come ai tempi della “guerra dell’oppio”.
Ma qual’è l’entità della corruzione cinese? Essa nasce dal fatto che lo sviluppo derivante dalle “Quattro Modernizzazioni” è stato trainato dagli enti pubblici e dalla spesa statale, l’unica disponibile in Cina a quel momento.
Alcuni analisti economici, negli anni ’80, hanno addirittura sostenuto l’opinione che la corruzione stessa fosse una sorta di stimolo per l’economia, dato che aumentava la domanda aggregata e il livello dei consumi.
Ma la corruzione blocca la crescita stabile, mentre favorisce la spesa improduttiva e accelera i cicli economici.
Secondo la gran parte degli esperti occidentali la corruzione, in Cina, rappresenterebbe circa il 3% del Pil attuale.
Xi Jinping, quindi, ha ragione nella sua lotta per estirpare le pratiche corruttive dentro e fuori il Partito perché, date le dimensioni del fenomeno, esse raggiungono sia i grandi (“le tigri”) che i piccoli funzionari (“le mosche”) che si annidano negli apparati e, con ogni probabilità, sono all’origine della recente diminuzione del tasso di crescita del Pil.
Se quindi il tasso di crescita dell’economia cinese dovesse diminuire ulteriormente, data anche la caduta degli Investimenti diretti esteri del 6% negli ultimi mesi, la stessa legittimità del Pcc a governare la Cina potrebbe cadere: è appunto grazie alla straordinaria crescita economica che il Partito mantiene la sua grande base di consenso popolare, che potrebbe restringersi se la corruzione dovesse bloccare l’espansione rapidissima del Pil cinese.
La lotta alla corruzione quindi, per Xi Jinping, è una parte, la più importante, della attuale riforma dell’economia e della integrazione cinese nel mercato-mondo.