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Landini vuole il posto della Camusso (la Coalizione sociale può attendere)

Di Fernando Pineda e Berardo Viola
landini fiom

In un consiglio di fabbrica? In una sede di zona del sindacato? Alla Bolognina? In una pizzeria popolare? No, Tutto iniziò nel circolo più esclusivo di Cesare Previti e della destra romana, il “Circolo Canottieri Lazio”. Quando? Nelle poche serate in cui non sono previsti talk, la sua seconda casa. Una serata di fine novembre, poco più di un anno fa, con la scusa di festeggiare il compleanno del braccio destro di Vendola, Ciccio Ferrara, anche lui ex Fiom Cgil. La sinistra dei salotti, che di sconfitta in sconfitta vive bene a Roma, decise di federarsi attorno alla Fiom, una mossa per garantire la sopravvivenza a chi non si arrende a Renzi “il barbaro”. C’erano quasi tutti: la presidente della Camera, Laura Boldrini, l’ex segretario del Pd Pierluigi Bersani, Nichi Vendola, Maurizio Migliavacca, uomo-ombra di Bersani nei giorni belli, Nicola Fratoianni, sempre Sel, con signora, e incurante dell’atmosfera decisamente borghese del ritrovo, anche lui, Maurizio Landini, il capo mediatico dei meccanici Cgil, che nel periodo precedente aveva polverizzato ogni record in presenze TV con un minutaggio televisivo superiore a tutti i dirigenti di Cgil-Cisl-Uil messi insieme.

Ma di cosa discuteva la sinistra fluviale sulle sponde dell’Aniene? Tra una portata e l’altra, i campioni della gauche italiana magari avranno parlato della “Cosa Rossa”, un sarchiapone politico che – nelle intenzioni del suo ideatore – doveva farsi “casa” delle sinistre che rifiutavano la dittatura del “tiranno fiorentino”.

Ritornando con la memoria a quella stagione, così vicina eppure già trapassata, non si può fare a meno di porsi un’altra domanda. Che fine ha fatto la Coalizione Sociale di Maurizio Landini? Dopo qualche altra cena, tanti begli aperitivi, dopo una lunga serie di comparsate televisive e due o tre adunate a dire il vero non oceaniche, cosa è rimasto della multicolore armata che doveva marciare compatta verso il nuovo Sol dell’avvenire?

Qualcuno ha disertato prima ancora di ricevere la cartolina, e si è premurato (vedi Don Ciotti) di farlo sapere, altri se la sono svignata alla chetichella. Una rotta brancaleonica, nonostante il vasto programma e i propositi roboanti.

Il 13 settembre 2015 Landini dà appuntamento alla Grande Coalizione Sociale a teatro. L’evento dovrebbe avere il crisma della fondazione mitica, ma il cartellone è così così. Si leggeva: “Una coalizione per organizzare la mobilitazione sociale, per opporsi a chi attacca i nostri diritti e la nostra dignità, per proporre e conquistare un’alternativa, per praticarla dal basso, ogni giorno, nei nostri territori”. Come Manifesto fondativo è un po’ fiacco, dissero in molti; più che Marx e Engels viene in mente Gioacchino Rossi: “C’è del nuovo e c’è del bello. Ma il bello non è nuovo e il nuovo non è bello”. Ecco, Landini ha fatto la fine del giovane compositore che si attirava le ironie del Cigno di Pesaro.

A stroncarlo però non è stata la critica – che anzi nei suoi confronti ha sempre usato i guanti bianchi – ma il velleitarismo del progetto. Che alla fine è stato accantonato prima che si incanalasse verso l’unico sbocco possibile: la creazione di un altro partitino della sinistra-sinistra, un’area che a furia di scissioni e personalismi: dal Partito Comunista, passando per Sel con Niki Vendola a Rifondazione Comunista, fino ad arrivare a Pippo Civati con Possibile, e Stefano Fassina con Sinistra Italiana, una pulviscolare frammentazione che dopo quella politica ha perso perfino una sua consistenza fisica, oltre la liquidità di Bauman, al punto di ridursi allo stato gassoso.

Nuvole che corrono veloci dopo la tempesta, come i riferimenti internazionali passati dall’altare alla polvere nello spazio di poche settimane: chi ricorda più (forse è meglio) la spedizione ateniese della “brigata Kalimera”, quando l’Europa sembrava appesa alle bizze del duo Tsipras – Varoufakis? Ora è il turno di Pablo Iglesias, leader di Podemos e astro nascente della sinistra spagnola. La Sinistra fluviale radical ha organizzato ogni volta charter, in Grecia, in Spagna. Pare che, preventivamente, Jeremy Corbyn abbia chiesto di bloccare lo spazio aereo britannico per non subire le stesse sorti elleniche e ispaniche dopo lo sbarco dei barricaderi della grande bellezza.

La coalizione sociale, alla prima occasione di piazza, con tanto di diretta televisiva, il 28 marzo 2015 mobilita circa 15.000 persone. Dal palco Landini non si risparmia e lancia la sfida: “Inizia una nuova primavera, siamo stanchi degli spot di Renzi. Il suo governo è peggio di quello di Berlusconi”. E la freschezza delle adesioni e l’età media fanno ben sperare, tanto che per Crozza la ‘Coalizione Sociale’ è piuttosto la “Pensione sociale”, mancavano dice, solo Dalidà, Shel Shapiro e Tenente Sheridan”. Passano pochi mesi, arriva l’autunno, la fase cambia, come si diceva un tempo, e il 17 ottobre sotto una Roma bagnata dalla pioggia, l’autunno della Coalizione è già arrivato, sono appena 3.000 i partecipanti. Il quotidiano comunista “Il manifesto” sibillinamente qualche giorno prima aveva titolato: “Coalizione in piazza il 17 ottobre, ma aumentano i litigi a sinistra”.

Landini però non è uomo da perdersi d’animo. Messa in soffitta la Coalizione Sociale, riposte in uno scatolone felpe e spillette, il leader della Fiom ha ripescato il piano B, che in realtà non aveva mai smesso di accarezzare: scalare la Cgil. Niente di strano. In tempi di confini incerti e identità liquide, si può usare il sindacato per ritagliarsi un posto al sole in politica, ma si può pure usare la politica per scalare il sindacato.

Forse qualcuno ricorda un breve saggio di qualche anno fa scritto dalla psicanalista Simona Argentieri, “L’ambiguità”, acuta riflessione sui comportamenti ambigui che hanno invaso la morale quotidiana, i giochi della politica e delle passioni. “Essere ambigui significa evitare il conflitto, il senso di colpa, la fatica della coerenza – scrive l’autrice – lasciando convivere dentro di sé identità molteplici”. Un dissimulare lieve, sul crinale tra conscio ed inconscio, ma pur sempre un inganno, un inganno che viene perpetrato anzitutto verso se stessi.
Detto in parole più povere: Landini vuole giocare la partita, ma vuole giocarla a carte coperte e magari con cinque mazzi di carte. Davanti a sé ha però due ostacoli. Il primo è il tempo: tra un anno e mezzo dovrà lasciare la guida della Fiom, dietro di lui si intravede già la sagoma di Bruno Papignani, per anni sindacalista fiommino a Bologna, primo in linea di successione nella dinastia sandinista (da Claudio Sabattini, soprannominato appunto il sandinista da Ottaviano Del Turco, ma che al tempo del fondatore qualche Contratto lo sapeva firmare) che monopolizza da alcuni lustri la segreteria Fiom, ma pensionabile da tempo.

Il secondo è il contratto dei metalmeccanici. Landini non ne ha mai firmato uno, il che, perfino nell’ondeggiante Cgil di questi tempi, non rappresenta il viatico migliore per prendere il posto di Susanna Camusso. La quale, per inciso, rappresenta in un certo senso, con le sue eterne indecisioni, una preziosa alleata. Perché da un lato ne stigmatizza gli sconfinamenti in politica, mentre dall’altro, col malcelato intento di contenerne la spinta, finisce per adottarne l’agenda. Si veda da ultimo l’iniziativa che punta a reintrodurre l’articolo 18 nella sua vecchia formulazione.

A riprova che la manovra è in corso, Landini ha di recente svestito i panni del falco per indossare quelli della colomba. La svolta, poco o punto rilevata dai giornali, è avvenuta con la presentazione del documento sui contratti di Cgil Cisl e Uil, cui il numero uno della Fiom ha tributato un plauso senza incrinature. Perché tanto zelo? Perché questo improvviso ritorno all’ortodossia confederale? Ricercare le ragioni nel merito sarebbe impossibile. La piattaforma della Fiom per il rinnovo del contratto nazionale, approvata in fretta e furia dopo l’ennesimo strappo con Fim e Uilm, prevede che la parte salariale si rinnovi a cadenza annuale. La proposta di Cgil Cisl e Uil apre ad aumento a quattro anni della vigenza contrattuale. Direbbe Di Pietro: che c’azzecca? La strumentalità è evidente. Camusso e Landini dicono in giro che gli basta aver fatto accettare alla Cisl una roba che ricorda l’idea del salario variabile indipendente.

Fa niente, Landini per insediarsi a Corso Italia è dovuto diventare di bocca buona, ha bisogno di firmare almeno un accordo, quale che sia, altrimenti sarà il primo segretario generale della storia a non aver firmato un contratto nazionale. Come se Federica Pellegrini fosse allergica al cloro. Non solo, ai suoi dice che la piattaforma confederale è roba vecchia, ma occorre far buon viso a cattivo gioco, per il profilo entrista a Corso d’Italia va bene così. Basterà? Di sicuro la Coalizione è sparita e oggi il segretario Fiom vede avvicinarsi la sua scadenza alla Fiom, fissata per fine del prossimo anno.

Il panico avanza, il tentativo di unire le 7 anime a sinistra del PD ha prodotto un’altra fazione portandole a 8, cumulate sono sotto il 3%. Ora Landini chiama in soccorso Michele Santoro e i conduttori dei talk, punta su Etruria Gate, i dissidi con la Ue, impazza tutte le sere in tv sperando di dare il colpo di grazia a Renzi. E come sempre quando va in scena il tutti contro Renzi, si finisce che ad incarnare l’alternativa, sono i personaggi di Corrado Guzzanti e Maurizio Crozza, col risultato di ridare forza e slancio al premier. Ma lo share con le sue grida monocorde sempre uguali mai nel merito non sale più. E anche i conduttori dei personaggifici dopo averci proposto in tutte le salse e a tutte le ore Landini e Salvini tengono famiglia e – come Landini – almeno un contratto da rinnovare.

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