Per chi invoca da tempo l’abolizione delle Regioni, la riforma costituzionale di Matteo Renzi contiene alcuni passaggi che, in prospettiva, fanno ben sperare. Non mi riferisco alla trasformazione del Senato in un inutile dopolavoro per 75 consiglieri regionali e 21 sindaci: questa è la parte peggiore della riforma, perché se il Senato è un doppione della Camera, e fa perdere tempo nel varo delle leggi, allora era meglio abolirlo del tutto. Il punto più interessante, e finora meno strombazzato sui media, è invece la riforma del Titolo V della Costituzione, che riguarda i poteri degli enti locali. Nella versione ancora in vigore, il Titolo V prevede una «concorrenza»legislativa delle Regioni su un elevato numero di materie. Ciò ha prodotto un’infinità di contenziosi con lo Stato centrale, sfociati in centinaia di ricorsi alla Corte costituzionale, promossi da Regioni e governo, per stabilire ogni volta il perimetro legislativo dei due contendenti.
L’esempio più recente è lo scontro Stato-Regioni sulle autorizzazioni per le trivelle in cerca di petrolio e gas lungo le coste. Dopo che dieci Regioni, di cui otto a guida Pd, avevano promosso una serie di referendum per impedire la libertà di trivella, introdotta con il decreto Sblocca Italia, e dopo che la Cassazione aveva dato il proprio ok ai quesiti, il governo Renzi è dovuto correre ai ripari in tutta fretta, e con l’ultima legge di stabilità ha reintrodotto il divieto di trivelle entro le 12 miglia marine, senza per questo fermare le contestazioni. Il divieto, infatti, non sarebbe valido per i permessi di ricerca già rilasciati, e alcuni governatori regionali, in testa Michele Emiliano (Puglia), si sono rivolti alla Consulta per conflitto di attribuzioni.
Ebbene, quando la riforma costituzionale sarà definitiva (mancano ancora le ultime due votazioni di Camera e Senato, più il referendum che si terrà di ottobre), scontri di questo tipo non saranno più possibili. Le potestà legislative dello Stato e delle Regioni sono state interamente riscritte nel nuovo articolo 117, che le definisce in modo minuzioso, conferendo quasi tutte le competenze allo Stato centrale, e lasciando alle Regioni poche briciole di potere legislativo, limitato alla «rappresentanza delle minoranze linguistiche, alla pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, dotazione infrastrutturale, programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali», e così via programmando. Insomma, aria fritta se paragonata alle due paginate di testo che, con commi dalla a alla zeta (testuali), elencano le materie su cui lo Stato avrà un potere legislativo esclusivo, e non più concorrente con le Regioni.
Nel riassumere il nuovo Titolo V, i giornaloni si sono limitati per lo più a ricordare che lo Stato centrale avrà competenze esclusive su materie ovvie: politica estera, immigrazione, difesa, moneta, sistema fiscale, ordine pubblico, giustizia, ordinamento scolastico, previdenza sociale, politiche attive del lavoro, ordinamenti professionali, dogane, fino al «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati». Ma il testo del nuovo articolo 117, portato avanti in parlamento con mano ferma da Maria Elena Boschi, va ben oltre, e cancella alla radice la facoltà delle Regioni di mettere becco su una serie di materie, dove finora potevano farlo.
Per averne un’idea, basta leggere le nuove competenze esclusive dello Stato partendo dal comma zeta, l’ultimo: «Infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili di interesse nazionale e internazionale». Quindi, basta con i veti regionali su nuove autostrade e ferrovie ad alta velocità. Risaliamo l’elenco a ritroso, ecco il comma v («Produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia»), che dà allo Stato il potere esclusivo sulle trivelle e sui nuovi gasdotti. Aggiungiamo altri due i commi, e sarà ancora più chiaro che per le Regioni è finita la stagione dei veti facili con il pretesto del territorio. Comma u: spettano solo allo Stato le «disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile»; idem (comma s) per: «Tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo».
Insomma, una virata forte verso il centralismo statale, che in teoria assicura maggiore libertà d’azione ed efficacia all’azione del governo nazionale. Efficienza tutta da verificare in futuro, ammesso che Renzi resti in sella. Possibilmente insieme a un’altra sua promessa: quella di ridurre il numero delle Regioni. In fondo, fatto il primo passo con la riforma del Titolo V, ora basterebbe fare uscire dai cassetti del parlamento la proposta di legge di due senatori del Pd, Roberto Morassut e Raffaele Ranucci, che prevede la riduzione delle Regioni da 20 a 12 e l’abolizione delle Regioni a statuto speciale. Non sarebbe ancora la soppressione delle Regioni e dei loro sprechi, ma un bel passo avanti, questo sì.
(Pubblichiamo questo articolo uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori)