Non ho mai conosciuto Totò Cuffaro, ma da vecchio cronista di giudiziaria mi sono sempre appassionato ai casi più clamorosi che hanno attraversato le aule dei palazzi di Giustizia italiani. E quello dell’ex presidente della Regione Sicilia è certamente uno di questi.
Fino a qualche mese fa, della sua vicenda mi ero fatto un’idea solo attraverso ciò che avevo letto sui giornali. Pensavo che elementi per condannarlo ce ne fossero, anche se mi irritava la faziosità con la quale quasi tutti i media trattavano il caso. E siccome il giornalismo militante, che sfoga la sua faziosità contro chi considera innanzitutto un avversario politico, mi ha sempre dato il voltastomaco, ho accolto volentieri l’invito di Simone Nastasi ad approfondire la vicenda.
Bene, devo dire che il materiale raccolto, da questo giovane e promettente giornalista d’inchiesta, mi ha colpito molto. Perché Nastasi non vuole dimostrare l’innocenza di Cuffaro, o convincere i lettori di trovarsi davanti all’ennesimo errore giudiziario. No, non era certo questo lo scopo del libro, e difatti Nastasi si limita a elencare soltanto fatti e circostanze. Ma sono fatti e circostanze che costituiscono un illuminante spaccato di come venga amministrata la giustizia in Sicilia quando ci si deve occupare di mafia, partecipazione esterna a “Cosa Nostra” e favoreggiamento più o meno aggravato. Per la stima che ho nei confronti dell’attuale Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, e del suo “braccio destro”, Michele Prestipino, che di mafia se ne intendono, avendo lavorato insieme prima a Palermo e poi a Reggio Calabria, dubito che il caso Cuffaro sia solo una montatura.
Ma dubito anche fortemente che in quell’inchiesta sia stata fatta davvero giustizia secondo il principio che “la legge è uguale per tutti”. Forse l’ex presidente della Sicilia ha pagato qualche errore nella linea difensiva, arroccandosi orgogliosamente sull’assoluta estraneità ai fatti contestatigli, quando ancora il credibile “pentito” Antonino Giuffrè non aveva fornito alla magistratura inquirente le prove della mafiosità di Michele Aiello.
Non lo so e non sono in grado di giudicare. Quel che è certo è che, una volta stabilito chi fosse davvero quell’imprenditore talmente insospettabile da essere utilizzato da politici e forze dell’ordine, dal novero degli indagati non potevano essere esclusi solo e soltanto i magistrati in qualche modo “beneficati”. Perché è allora che sorge il sospetto che i comportamenti omertosi non siano solo quelli contestati agli imputati; e si favoriscono i giudizi sui presunti atteggiamenti “persecutori” nei confronti di Cuffaro.