C’era un tantino di sarcasmo, conforme del resto al suo stile, piaccia o non piaccia, nel “coraggio” riconosciuto da Matteo Renzi ai senatori che si accingevano ad approvare la riforma costituzionale nell’ultimo passaggio d’aula a Palazzo Madama, penultimo del lungo percorso parlamentare. Manca ora solo l’ultimo, scontato sì della Camera, dove il presidente del Consiglio gode di una maggioranza da passeggiata.
Al Senato il governo ha potuto invece ottenere il minimo della maggioranza richiesta per le modifiche costituzionali, quella assoluta della metà più uno dei membri dell’assemblea, grazie a quello che Denis Verdini chiama “affiancamento”, non affiliazione, degli ultimi fuoriusciti da Forza Italia. I cui dirigenti hanno preferito, con la preparazione di un loro comitato referendario del no, un altro affiancamento: alla sinistra vendoliana e dintorni, compresi Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e allievi.
Va detto con onestà che l’accostamento, o aggancio, di Verdini e amici a Renzi è stato coerente con altri passaggi della riforma. L’operazione ha assunto una sua solennità per il funerale derivato al vecchio Senato elettivo. Cui Renzi, d’altronde, presentatosi due anni fa come presidente del Consiglio, e reduce dal famoso Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, aveva detto con spavalda franchezza di voler essere l’ultimo a dover chiedere la fiducia, ritenendo che potesse bastare e avanzare quella della Camera.
++++
Ormai il Senato potrebbe evitare la sepoltura solo se Renzi perdesse il referendum confermativo della riforma previsto in autunno, salvo un anticipo attribuitogli sul Fatto dalla sospettosa Sandra Bonsanti per abbinarlo alle elezioni amministrative di giugno e garantirsi una maggiore affluenza alle urne. Ma non sembrano francamente queste le intenzioni, né le preoccupazioni del presidente del Consiglio, che proprio al Senato ha detto di volere condurre una campagna referendaria coi fiocchi, ben preparata, andando con i suoi “casa per casa”. Quasi un “porta a porta”, come quella televisiva di Bruno Vespa, che magari l’ospiterà generosamente perché guadagnerebbe anche l’ascolto di quella che Giulio Andreotti definì “la terza Camera”, non pensando forse che potesse davvero essere soppressa o diventare una cameretta la seconda, della quale egli era inquilino a vita.
Certo, se il Senato dovesse essere salvato dal referendum, il funerale politico diventerebbe quello di Renzi, tornato a dire proprio nell’aula di Palazzo Madama che una vittoria del no comporterebbe per lui il ritorno a casa. Cioè le dimissioni, alle quali però il capo dello Stato, che risulta assai scettico del carattere plebiscitario del referendum sulla riforma istituzionale, potrebbe reagire parlamentarizzando la crisi, come si dice in gergo costituzionale. Cioè rinviando Renzi alla Camera e al redivivo Senato, dove il presidente del Consiglio grazie al rischio dello scioglimento e delle elezioni anticipate potrebbe riottenere la fiducia. E adeguarsi come ad uno stato di necessità ineludibile. Uno scenario che su Formiche.net abbiamo già definito paradossale. Ma pure in politica il paradosso ha diritto di cittadinanza.
++++
Un funerale metaforico è anche quello della celebre inchiesta su Tangentopoli che l’ex capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli deve avere avvertito, e non gradito, nell’eco che sta avendo il libro di Mattia Feltri – “Novantatre – L’anno del terrore di Mani pulite”- rievocativo degli eccessi giudiziari e mediatici nella pur doverosa azione di contrasto condotta allora contro il finanziamento illegale della politica e la conseguente o collaterale corruzione. Che perdura a tal punto da avere indotto qualche anno fa lo stesso Borrelli alle scuse, colte al volo da Claudio Martelli, in un libro autobiografico, per lamentare le degenerazioni e il sostanziale fallimento dell’offensiva giudiziaria contro partiti e protagonisti della cosiddetta Prima Repubblica.
In una lettera al Corriere della Sera, e in polemica con una favorevole recensione del libro di Mattia Feltri scritta da Pierluigi Battista, il pensionato Borrelli ha smentito di avere mai detto che nella stagione di Mani pulite s’incarceravano gli indagati per farli parlare. “Ovviamente -ha scritto l’allora capo degli inquirenti- l’indagato se ammetteva gli addebiti e prestava collaborazione, perdeva affidabilità presso i suoi concorrenti noti o ignoti, sicché con l’esigenza di cautela veniva meno il fondamento della restrizione della libertà”.
Se non è stata zuppa, è stato pan bagnato. A mangiare il quale, dopo quattro mesi di carcerazione “cautelare” da cui gli inquirenti si aspettavano quella che Borrelli chiama “collaborazione”, l’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari il 20 luglio 1993 si uccise nella cella di San Vittore. Una carcerazione e un suicidio un po’ troppo sbrigativamente liquidati da Borrelli fra le “pochissime e clamorose eccezioni” di Mani pulite. Di cui nessuno peraltro negli uffici giudiziari ha davvero pagato il conto.