Per quanto abbia ottenuto la fiducia con una larga maggioranza – di 178 e 174 voti – negli appelli nominali sulle due mozioni contro il governo presentate per l’affare delle banche dalle opposizioni di centrodestra e grillina, si fa sempre più ruvido il lungo commiato di Matteo Renzi dal Senato. Lungo, perché mancano due anni alla conclusione ordinaria della legislatura. Che potrebbero ridursi a poco più di uno se il presidente del Consiglio, vinto nel prossimo autunno il referendum confermativo sulla riforma costituzionale, che elimina il Senato elettivo sostituendolo col surrogato di un centinaio di consiglieri regionali e sindaci, cedesse alla tentazione dello scioglimento anticipato delle Camere. E ottenesse, naturalmente, il consenso indispensabile del presidente della Repubblica.
Nel discorso pronunciato nell’aula di Palazzo Madama, accanto alla ministra Maria Elena Boschi, contro le opposizioni che reclamavano la crisi per l’affare soprattutto della Banca Etruria, vice presieduta sino al crac da papà Boschi, il presidente del Consiglio si è rivolto con sufficienza ai “signori del Senato”. E non agli “onorevoli senatori”, come usavano fare i suoi predecessori.
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Il Senato, zitto e mosca, ha incassato. E per vincere la partita delle banche Renzi non ha avuto bisogno neppure dell’aiuto dell’Ala di Denis Verdini, rivelatosi invece decisivo per l’approvazione della riforma costituzionale. I 178 e i 174 no alle sfiducie promosse dal centrodestra e dai grillini sono stati ben più numerosi dei 161 voti di cui la maggioranza formale di governo dovrebbe disporre in aula a ranghi completi per essere ritenuta autosufficiente. Nelle votazioni di fiducia, peraltro, il cosiddetto quorum si abbassa, essendo richiesta la maggioranza dei presenti, non quella –assoluta- dei membri dell’assemblea.
Il carattere non decisivo del voto di Verdini e amici – diversamente da quanto hanno riferito alcuni cronisti e giornali per incompetenza o pregiudizio – ha risparmiato a Renzi le solite e ormai stucchevoli polemiche della sinistra interna al suo partito e dintorni. Dove si è finalmente scoperto – pensate un po’ – chi davvero minacci la democrazia e persino l’igiene dell’Italia: il senatore fiorentino. Che poteva frequentare tranquillamente o quasi, in senso fisico e telefonico, il Nazareno in compagnia dell’odiato Silvio Berlusconi ma dovrebbe essere respinto con indignazione adesso, pur avendo rotto con Berlusconi per avere quest’ultimo rotto, a sua volta, con Renzi dopo l’imprevista o sgradita elezione di Sergio Mattarella al Quirinale.
Sono proprio i berlusconiani, o quel che ormai ne resta, ad essere usciti francamente più ammaccati dalla sfiducia promossa contro il governo per l’affare delle banche. Il presidente del Consiglio ne ha impietosamente denunciato contraddizioni e limiti, ricordando non solo che sono “sempre meno”, perché perdono continuamente pezzi, ma anche che quelli rimasti formalmente in Forza Italia vanno privatamente a lamentarsi da lui e dai suoi amici delle scelte del partito. E infatti persino nella votazione sulla mozione di sfiducia presentata dal loro gruppo vi sono stati otto assenti ancora forzisti.
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Il doppio voto di fiducia, o di no alla sfiducia, ottenuto al Senato, potrà aiutare Renzi nell’incontro ormai imminente con la cancelliera Angela Merkel a Berlino. Dove il capo del governo italiano era stato rappresentato come “arenato” da amici e giornali fiancheggiatori della cancelliera, sorpresi e indispettiti dalla svolta muscolare da lui impressa nei rapporti con Bruxelles e con la capitale tedesca di riferimento. Una svolta confermata da Renzi in una intervista al principale giornale della Germania, proprio alla vigilia dell’incontro di Berlino, dicendo che la cancelliera tedesca e il presidente francese François Hollande “non possono decidere da soli”, né sul tema ormai drammatico dell’immigrazione né sugli altri. Che mettono a rischio quelli che pure il Corriere della Sera, polemico con lo stile o i metodi di Renzi, ha riconosciuto “legittimi interessi nazionali” in un editoriale di Francesco Giavazzi.
Non a torto, tuttavia, l’editorialista del Corriere ha rimproverato a Renzi l’errore commesso impuntandosi a suo tempo per la nomina dell’italiana Federica Mogherini alla inconsistente carica di Alta rappresentante per la politica estera e la sicurezza europea, viste le prerogative che in questo campo conservano i Paesi dell’Unione Europea. Più utili sarebbero state al governo italiano le caselle della concorrenza e degli aiuti di Stato nella Commissione di Bruxelles, e relativi uffici.