Da alcune settimane il focus della politica estera è il futuro dell’Europa. Ormai, infatti, la sopravvivenza del Trattato di Schengen, di fatto trasversalmente contestato e messo sotto accusa da tutti i Paesi dell’Unione, corre sul filo delle cancellerie e rischia di aprire un processo involutivo irreversibile di scomposizione delle parti.
Il motivo scatenante, tradotto nella crisi della libera circolazione entro i confini comunitari, è stato l’esplodere dei flussi migratori che hanno provocato negli ultimi mesi in modo massiccio, sia per terra sia per mare, un afflusso consistente di profughi migranti. La gestione, inizialmente, è stata affidata agli Stati frontalieri, quelli cioè come Italia, Grecia e Ungheria che si trovano a governare direttamente i confini dell’Europa. Di qui il primo grande assurdo: se non esistono più barriere tra i Paesi membri, ipso facto anche i limiti nazionali che separano l’Europa dalla non Europa non possono essere considerati solo una responsabilità nazionale. Ecco che invece sempre più i Paesi interni hanno voluto far ricadere solo sugli Stati periferici incombenze e amministrazione delle presenze.
Un passo successivo è stato l’accordo, in discussione anche oggi nel summit tra Merkel e Renzi, di una redistribuzione equa dei flussi migratori tra tutti i Paesi dell’Unione: una fase due che però non ha sortito i risultati sperati, sinora. Ha preso piede invece una terza iniziativa, voluta da Francia, Germania, Austria, Svezia, Danimarca e Croazia di chiudere le proprie frontiere, mettendo fine, in tal modo, all’essenza stessa del Trattato di Schengen.
Inevitabilmente, il destino dell’Europa sembra ricadere sulla Grecia, sotto accusa per non aver difeso e tutelato i confini, ma anche sull’Italia e la Croazia. Si fa strada così la possibilità di una sorta di mini-Schengen, ossia di tutela delle frontiere più interne rispetto a quelle che invece dovrebbero essere protette da quei Paesi, come la Grecia, che sarebbero abbandonati al loro destino.
A questo punto è indispensabile fare alcune precisazioni che spingano ad affrontare di petto la condizione stessa di possibilità dell’Europa unita.
La prima riguarda l’unilaterale esigenza, manifestata soprattutto dagli Stati del nord, di recidere il filo comunitario. Se le esigenze interne possono avere giustificazione, non è possibile accettare che Svezia e Danimarca in primis si chiudano in se stesse, facendo ricadere le conseguenze del proprio egoismo nazionale sugli altri. Analoghe considerazioni devono essere fatte anche a proposito di Francia e Germania. O l’Europa esiste, e quindi non ci sono più confini interni e tutti ci occupiamo di tutelarli; oppure l’Europa non esiste, ma allora vengono meno anche gli oneri economici del patto di stabilità e altri vincoli comunitari, che, di fatto, hanno avvantaggiato soprattutto i Paesi più ricchi ed efficienti, come Germania, Svezia e Danimarca.
È chiaro, insomma, che il problema non è contingente ma sostanziale: esiste veramente l’Unione Europea, oppure no? E se esiste su che cosa si basa propriamente la sua essenza?
Eccoci giunti così al cuore vero del quesito. In questi anni abbiamo visto realizzarsi una comunità continentale fondata su due soli presupposti: unità monetaria e unità territoriale, con annesso abbattimento dei confini interni. Il primo principio è stato screditato dalla percezione negativa che i cittadini hanno avuto delle politiche economiche nei loro rispettivi Paesi. Il secondo viene adesso in pratica abolito, se non neutralizzato, dalle esigenze dei singoli Stati. Possiamo dire che materialmente l’Europa politica è morta, anche se la sopravvivenza sarà magari garantita in qualche maniera.
La domanda da porsi è la seguente: su cosa si fonda l’esistenza dell’Unione?
La risposta deve riguardare essenzialmente l’idea di cittadinanza. Questa si può esprimere unicamente se come singoli individui ci sentiamo parte di un “noi” comunitario. Fin quando, infatti, la dimensione della prima persona plurale si esprime in ogni cittadino unicamente attraverso l’appartenenza nazionale, è chiaro che Schengen o mini-Schengen che sia, l’Europa politica non esiste. Le grida di giubilo ieri a Milano di Salvini e della Le Pen sulla fine del Trattato hanno senso perché le loro ragioni politiche e culturali si fondano esclusivamente sul “noi nazionale”, escludendo per principio il “noi comunitario”. Dobbiamo chiederci se questo è vero. E ancor più se lo devono chiedere Renzi, Hollande e la Merkel. L’Inghilterra, infatti, ha già risposto in modo negativo a questa esigenza democratica e unitaria dell’Europa. E gli altri?
La risposta può essere positiva. Non è necessario che, non riuscendo ad andare avanti così come abbiamo fatto finora, si debba andare indietro e tornare al feudalesimo nazionalista. Il “noi comunitario” esiste, ma purtroppo non è quello che è stato issato a fondamento dell’Unione. Tutto qua. Intanto ogni cittadino dell’Unione sa che può condividere un insieme minimo di valori collettivi che creano il senso di appartenenza. Il primo tra tutti è un’idea di persona e di libertà, di partecipazione democratica e di civiltà, e così via.
Questi valori umani sono tanto più forti quanto più la minaccia esterna si fa pressante. Ed è in conformità a questi valori che il Noi comunitario dell’Europa deve farsi valere come identità solidale, oltre le singole appartenenze regionali e nazionali. Ovviamente, vi è pure un secondo passaggio importante. Questo senso dell’identità soggettiva dell’Europa non può essere né esaurito, né schiacciato sull’altare di una visione burocratica, legalista e sostanzialmente anti democratica delle istituzioni di Bruxelles.
Se l’Europa ha un senso, allora non può esistere che ogni singolo Paese pensi soltanto a se stesso; ma non può neanche esistere che la sua realtà si fondi sulla centralizzazione delle banche e dei sistemi normativi esterni della Commissione Europea.
Non è il potere istituzionale che costituisce l’Europa: è la soggettività “nostra” di essere europei che deve generare il potere delle istituzioni comunitarie. La crisi di Schengen non è la causa della crisi europea, ma è l’effetto ultimo di una concezione sbagliata dell’Europa, la cui unità o è fondata democraticamente sul nostro Noi reale e sovrano, oppure non è fondata per niente, somigliando a un potere straniero che aleggia sopra le teste e mette la mano comunitaria nei risparmi nazionali dei cittadini.