L’intervista al ministro degli Esteri pubblicata dalla Stampa è molto più che un intervento d’occasione suscitato dalle tensioni intra europee sull’immigrazione, quelle stesse che hanno indotto la Svezia e la Danimarca a introdurre di nuovo il controllo alle frontiere in particolare sul ponte di Öresund. Paolo Gentiloni, infatti, lancia almeno tre messaggi importanti. Il primo: “Sull’altare di Dublino si sta rischiando di sacrificare Schengen”. Il secondo, più indiretto, è che anche l’Italia, se costretta, potrebbe rimettere i controlli ai confini. Il terzo è che bisogna cambiare l’Unione europea, prendere atto che esiste già una Unione a più velocità e costruire un modello confederale, o a cerchi concentrici, con un nocciolo duro e livelli diversi di integrazione. Ciò serve da un lato a non impiombare chi vuole mandare più avanti l’integrazione, dall’altro a offrire una chance alla Gran Bretagna affinché non rompa il legame istituzionale con il continente.
Su Dublino il ministro italiano ha perfettamente ragione, ormai quasi tutti ne sono convinti, eppure esiste una ottusa resistenza; si preferiscono degli aggiustamenti che, come tutte le pezze messe sulle falle, difficilmente potranno tenere a galla la barca, anzi questa zattera della Medusa chiamata Unione. Nessun Paese di prima accoglienza può gestire il nuovo esodo; non riescono a gestirlo nemmeno i Paesi del nord Europa che agli occhi dei profughi e dei migranti sono una sorta di Eden. L’utopia scandinava non esiste più da tempo e quando medie città come Malmö hanno una popolazione composta per il 40% da immigrati la maggioranza dei quali musulmani per lo più ortodossi (il velo in tutte le sue forme domina non solo nelle periferie-ghetto, ma per le strade del centro) è evidente che la stessa convivenza diventa a rischio.
Rivedere Dublino è una priorità, ma non solo in senso tecnico-giuridico, bisogna approfittarne per ripensare l’intera politica dell’accoglienza e della cittadinanza europea. Con principi e strumenti comuni. “Servono impegni e risorse adeguate”, dice Gentiloni. Parole vuote, desideri, speranze? La Ue si muove solo di fronte a choc forti. In questo caso, una volta toccata con mano per l’ennesima volta l’amara realtà, l’Italia dovrebbe dar seguito a quella larvata e indiretta minaccia. La Francia lo ha fatto in modo unilaterale e certo non amichevole, noi potremmo farlo in modo consensuale e collaborativo. Non possiamo essere un punching ball piantato nel Mediterraneo, colpito da nord e da sud, da est e da ovest. Il governo italiano si presenti con le sue proposte e ne tragga le conseguenze. Significa battere i pugni sul tavolo? Violare il galateo della diplomazia europea? Non scherziamo, significa avere una politica che tuteli gli interessi nazionali.
Ciò ci conduce direttamente al terzo messaggio. L’euro è sopravvissuto alla crisi dei debiti sovrani solo grazie alla Banca centrale europea, unica istituzione che ha gli strumenti per funzionare come un vero soggetto federale. Non esiste niente di simile in campo di sicurezza interna (polizia) ed esterna (esercito) non per difetti culturali o rigidità politiche, ma perché l’Europa a 28 è ancor più divisa, nei suoi interessi di fondo e nelle sue proiezioni geopolitiche, rispetto alla stessa euro zona che, pure, non ha affatto superato le sue fratture tra nucleo teutonico e cosiddetti Pigs.
Chiudere gli occhi di fronte a questa realtà, significa perdere tempo prezioso. Perché nel frattempo il mondo cambia velocemente e non in meglio. La Russia neo-zarista di Putin da un lato e il caos mediorientale dall’altro lo dimostrano. Dunque, meglio trarne le conseguenze. Ciò significa in concreto che alcuni Paesi i quali hanno interessi e confini comuni da difendere possono darsi gli strumenti adeguati (economici, politici e militari) senza per questo aspettare il consenso di altri che hanno priorità diverse. Non è la panacea, ma sarebbe comunque un passo avanti. Gli stessi accordi di Dublino, tanto per fare un esempio, potrebbero essere cambiati dai Paesi che ne sono penalizzati. Ciò significa disintegrare la Ue? Forse vuol dire mettere le mani avanti prima che avvenga una vera deflagrazione in grado di cancellare per generazioni la stessa idea che l’Europa non sia solo un’espressione e geografica.