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Ilva, ecco come salvare (e non svendere) la siderurgia italiana

ilva di maio taranto

Il decreto-legge che andremo ad approvare non è la soluzione dei problemi dell’Ilva e della siderurgia italiana, tuttavia consente a questo, che non è il più grande gruppo industriale italiano, come è stato detto, ma il più grande gruppo siderurgico italiano, di comprare il tempo necessario per affrontare e una buona volta risolvere la questione.

In questo momento l’Ilva sta perdendo denari; li ha persi nel 2015 e li ha persi anche prima. L’Ilva è in mezzo al guado di un ciclo di investimenti oneroso che ha lo scopo di ambientalizzare il processo produttivo e di aggiornare la dotazione impiantistica specialmente dello stabilimento di Taranto. L’Ilva ha seguito negli ultimi due anni e mezzo un percorso accidentato contrassegnato da notevoli incertezze da parte del pilota. Non ne faccio la storia per l’amore di rivangare il passato, ma per trovare una soluzione per il futuro, se la storia qualche volta può essere maestra di vita.

All’inizio fu il commissariamento, con l’ex decreto ambientale sull’Ilva: il commissario Enrico Bondi fece un piano industriale che aveva lo scopo di finanziare il piano ambientale. Il piano industriale era basato su una radicale innovazione tecnologica, e cioè il passaggio dalla cokizzazione del carbone allo scopo di trattare il minerale di ferro nel ciclo dell’alto forno, alla parziale pre-riduzione utilizzando il gas, che avrebbe avuto un impatto ambientale strutturalmente inferiore alla tecnologia tradizionale basata sulle cokerie. Quel piano fu accantonato perché al commissario Bondi non fu rinnovato l’incarico.

Fu allora dato l’incarico al commissario Gnudi di vendere immediatamente l’Ilva, nella convinzione che ci potesse essere qualcuno pronto ad acquistarla, tanto è vero che Gnudi non fece alcun piano industriale, dicendo saggiamente che lo avrebbe fatto chi fosse venuto dopo, posto come dato di fatto irrinunciabile l’attuazione dell’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale. Il risultato, come voi sapete, è che nessuno si è fatto avanti per comprare l’Ilva, per tante ragioni che sarebbe troppo lungo ricostruire adesso, ma che possiamo fare quando vogliamo. È così accaduto che, dopo alcuni mesi, nel corso dei quali le perdite non sono certo diminuite – le perdite reali e non quelle contabili: basta andare a vedere la differenza tra le chiusure di fine mese e l’aumento dell’indebitamento – si è arrivati all’amministrazione straordinaria, che è l’ammissione della non sostenibilità economica della gestione.

L’amministrazione straordinaria si è data a quel punto un piano industriale. Non è vero che l’Ilva non ha un piano industriale; ha un piano industriale asseverato dalla Boston Consulting, basato sulla continuazione della produzione secondo le tecnologie tradizionali e l’attuazione dell’Aia. Tale piano comporta un carico di investimenti molto importante e per reggere ha bisogno di un mercato in espansione; ha bisogno di una domanda che tira, perché allora Taranto può andare al massimo della sua potenzialità e far tornare i conti perché, come voi sapete, la siderurgia primaria ha costi fissi elevati; non è una colpa, è un dato di fatto.

Ebbene, qualcuno si è accorto che la cosa non poteva reggere perché il mercato mondiale dell’acciaio è da tempo in fase recessiva. Non dovete guardare soltanto all’economia nel suo complesso; la domanda di acciaio era in fase recessiva e lo è tuttora. Ci sono Paesi che hanno una capacità produttiva colossale, come la Cina – che vale circa la metà della capacità produttiva mondiale – che ha un eccesso di capacità produttiva straordinario; l’Europa, che è una potenza siderurgica sempre rilevante, ha un eccesso di capacità produttiva percentualmente meno rilevante di quello cinese, ma del tutto notevole. In queste condizioni il piano industriale che ha l’Ilva non regge. Proprio per questo c’è stata la consapevolezza da parte dei commissari che ha indotto a disegnare un’alternativa industriale, che ha ricevuto anch’essa il timbro della Boston Consulting.

Le società di consulenza un timbro non lo negano mai a nessuno. Questo piano diverso si propone lo scopo di rendere più flessibile il processo produttivo a Taranto, così da poter navigare nei mari tempestosi della crisi, adeguando l’offerta alla domanda del momento. Per fare questo è necessario non ricostituire l’altoforno n. 5, che da solo vale almeno la metà della capacità produttiva di Taranto, ma installare al suo posto – prima uno e poi un altro – due forni elettrici di notevole potenza, ai quali legare colate continue ad alta velocità.

Se dobbiamo andare in Europa, dobbiamo parlare di cose serie e non di slogan: con gli slogan non si va da nessuna parte. Accanto a questi impianti, bisogna recuperare l’idea di preridurre il minerale di ferro, non certo per il 100 per cento della produzione – che è un traguardo ipotetico, di un futuro lontano – ma ad una percentuale che può andare dal 20 al 50 per cento, via via, gradualmente. Ricordo che quella della preriduzione è una tecnologia made in Italy: la fa la società Tenova, del gruppo Techint, controllato dalla famiglia Rocca, in alleanza con un’altra grande società di impiantistica, che si chiama Danieli.

Per portare avanti un progetto di questo genere, ci vuole una adeguata dotazione di capitale, che può essere portata in parte dalla mano pubblica – ovvero dalla Cassa depositi e prestiti – in parte dalle banche e per un’altra parte da soggetti industriali, che siano interessati a questa proposta. La siderurgia privata del Nord può utilizzare il preridotto, in associazione al rottame, perché può risultare conveniente e, dunque, si deve trovare il modo di coinvolgerla in questo processo. Altri grandi produttori siderurgici, del settore dei laminati piani, come ad esempio Arvedi, possono essere inclusi nella partita.

Soprattutto, se si ha un’idea industriale nuova – e questa è un’idea industriale nuova – si può andare in Europa senza tenere il cappello in mano, come dice il nostro Presidente del Consiglio, ma con un’idea che vada oltre la semplice polemica sul fatto che questo decreto-legge, con il capitale che mette a disposizione, costituisca o meno un aiuto di Stato. Se infatti andiamo a dire che stiamo cambiando il modo di fare acciaio in Italia, ponendo l’Italia all’avanguardia, in Europa e nel mondo, dal punto di vista dell’impatto ambientale e delle nuove tecnologie, se diciamo che quello che stiamo facendo noi, lo sta facendo anche la tedesca Salzgitter, dimostrando in tal modo che non siamo dei sognatori strani, ma possiamo essere una delle avanguardie industriali nel mondo, allora anche l’intervento del denaro pubblico acquisterà tutt’altro significato: non sarebbe la respirazione bocca a bocca ad un moribondo, ma un investimento di avanguardia, che si inserisce nei diversi programmi di attuazione del COP21 e della decarbonizzazione dell’economia. Per fare questo, ci vuole un accordo con l’Eni, allo scopo di avere il gas ad un prezzo di equilibrio tra gli interessi dell’Eni e quelli dell’Ilva.

Questo – credetemi – è possibile perché l’Eni ha molti contratti take or pay di gas e trovare un cliente che ne consuma tanto ad un prezzo ragionevole può far parte anche dei suoi interessi. Quindi, a mio giudizio bisogna avere la forza di associare a questo decreto-legge, che va senz’altro convertito in legge, un impegno del Governo per l’adozione di un disegno di politica industriale che renda accettabile e prospetticamente molto interessante il processo di vendita dell’Ilva. Diversamente, con l’amministrazione straordinaria avremo soltanto cancellato una parte dei debiti pregressi, rendendo perciò un po’ più appetibile l’Ilva, ma non avremo salvato la siderurgia italiana.

Concludo ricordando due numeri. Quando sentirete che si farà avanti la ArcelorMittal, dovete ricordare che nei primi nove mesi del 2016 questa azienda ha perso 1,2 miliardi di euro (non noccioline) e che ha 16,8 miliardi di debiti, che rappresentano quattro volte il margine operativo lordo. È tanta roba, credetemi. La stessa ArcelorMittal è impegnata – lo dice per rassicurare i propri azionisti – a tagliare gli investimenti su quello che ha adesso. Secondo voi, se un soggetto del genere acquisisse l’Ilva di Taranto, lo farebbe per svilupparla o per ridurla ai minimi termini? E così via tutti gli altri.

In un mondo che ha un eccesso di capacità produttiva, non esistono benefattori, ma imprenditori che, legittimamente dal loro punto di vista, vogliono tagliare le capacità produttive in eccesso e non c’è niente di meglio che approcciare un soggetto come l’Ilva, che oggi ha grandi prospettive, ma anche grandi difficoltà, facendo leva su quest’ultime per ottenere, con poca spesa, un taglio della capacità produttiva in eccesso nel vecchio continente.


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