La pubblicazione, per i tipi di Codice, del nuovo libro del sociologo bielorusso Evgeny Morozov, “Silicon Valley. I signori del silicio”, offre l’occasione per fare il punto su alcune questioni che ruotano intorno a Internet, informazione e potere.
Critico di una visione illusoria della Rete come veicolo di democratizzazione, Morozov già visiting scholar all’Università di Stanford e firma del New Republic – identifica nella Valley, cioè nelle grandi imprese del digitale e del web, il luogo di un potere pervasivo e dotato di un’impenetrabile impunità. La stampa online, nella rubrica curata da Anna Masera “Public Editor”, propone un estratto del nuovo volume corredato da commenti di Massimo Russo, co-redattore capo de La Stampa stessa e di Juan Carlos De Martin, professore del Politecnico di Torino. Russo nota che, in questo libro, Morozov fa un salto dalla critica del “cyberottimismo”, una visione positiva dell’impatto delle tecnologie digitali sul progresso della società, a un vero e proprio attacco al sistema capitalistico. La Valley e le grandi corporation tecnologiche e di servizi digitali sono inquadrate come predatori dello spazio pubblico che, attraverso il dominio sui dati degli utenti, consolidano una posizione dominante su mercati e sfera politica.
Per farsi un’idea della visione di Morozov, si può attingere a un articolo pubblicato il 22 gennaio da “Internazionale”, “L’era del populismo tecnologico”. Morozov fa riferimento ad alcuni casi come quelli dei conflitti tra Uber e alcune amministrazioni pubbliche locali in giro per il mondo o quello tra del confronto tra Facebook e il Governo indiano in merito all’iniziativa “Free Basics”. Vediamo cosa è successo in questi casi. Già nell’agosto 2015, la Harvard Business Review ha preso in esame questi avvenimenti in un articolo di Matt Stempeck, Director of Civic Technology di Microsoft, intitolato “Are Uber and Facebook Turning Users into Lobbyists?” (“Uber e Facebook stanno trasformando gli utenti in lobbisti?”).
Al centro del caso riguardante Facebook, il conflitto nato intorno a quella che alcuni operatori indiani indicavano come una violazione della net neutrality da parte di internet.org, la partnership guidata dal maggiore Social Network per la diffusione gratuita della connessione al web delle popolazioni dei paesi meno sviluppati. Il problema era che il programma escludeva l’accesso ai servizi degli operatori non selezionati dallo stesso Network. In testa alla bacheca degli utenti indiani di Facebook cominciò, così, a comparire un’inserzione della compagnia che li invitava a comunicare al Governo indiano il proprio supporto all’iniziativa. Un click avrebbe fatto fatto partire un messaggio a nome dell’utente.
Uber si è invece trovata (ne sappiamo qualcosa anche in Italia) in conflitto con i tassisti di molte città del mondo e con le locali amministrazioni pubbliche che hanno preso in esame l’imposizione di regolazioni e limiti ai servizi della compagnia. Nel confronto con le amministrazioni di New York e Londra, Uber ha invitato i propri utenti a manifestare la loro soddisfazione per il servizio e il loro supporto alla compagnia, sia attraverso call to action in-app (un “click” attraverso cui inviare un messaggio all’amministrazione direttamente dall’app dell’azienda), sia attraverso la sottoscrizione di una petizione online. Azioni che hanno procurato a Uber un certo successo nelle vertenze sia con la città di New York che con quella di Londra. Ma quelli di Facebook e Uber sono solo alcuni esempi di un più vasto panorama di imprese che hanno fatto ricorso agli utenti come lobbisti.
Nota Stempeck che “le imprese della cosiddetta sharing economy sono state all’avanguardia nel mobilitare gli utenti in propria difesa, perlopiù per necessità. Uber, Airbnb, Lyft, 23andMe e altre compagnie che aggirano, o in alcuni casi, ignorano le norme esistenti, hanno trovato nella lealtà degli utenti una risorsa nel loro confronto con i pubblici amministratori”.
Per farla breve, la rete, nella sua rapida e tumultuosa evoluzione, ha modificato anche quelle che, nel linguaggio delle relazioni pubbliche nostrane, si chiamano relazioni istituzionali. Non più lobbisti (o non solo) che affollano le anticamere dei decisori politici, ma schiere di consumatori che si rivolgono direttamente (veicolati dai media aziendali) a coloro di cui compongono la constituency. Insomma: l’elettorato alle porte.
Questo fenomeno ha un nome: disintermediazione. Fenomeno che ha provocato molteplici effetti in un domino sistemico di cui, quello stigmatizzato da Marazov, appare essere uno dei casi possibili. La disintermediazione si è presentata, infatti, anche in senso opposto. La rete fa, da tempo, da veicolo a gruppi di pressione coagulati intorno a cause sociali. Si pensi ai gruppi di pressione per gli investimenti sostenibili e responsabili che spingono le imprese all’adozione di comportamenti adeguati.
Per ciò che riguarda i processi politici, Barak Obama – raffinando un processo avviato da tempo nella politica Usa – ha fatto della rete una leva centrale del rapporto tra politico ed elettore. Il senatore dell’Illinois si servì con, allora, inedita abilità di tutte le armi della rete – big data, social media, mail marketing, hangout e via enumerando – per conquistare, di slancio, il mandato alla Casa Bianca.
Anche da noi, anni più tardi, tra una Leopolda e un blitz dalla De Filippi, usando con cura gli strumenti della rete, Matteo Renzi è riuscito, in un breve lasso di tempo, prima a scalare il PD e poi, raggiunto Palazzo Chigi, a conquistare la più larga vittoria elettorale della storia repubblicana: il 40,8 per cento alle europee del 2014. Ma non solo. Renzi ha tolto il primato nel web a quel MoVimento 5 Stelle che proprio sulla rete aveva costruito le sue, iniziali, fortune politiche, insieme al mito della democrazia dal basso, dimostrando di padroneggiarne gli strumenti con tutt’altra agilità. Oggi, racconta Formiche.net, Jim Messina, ex capo-staff della prima amministrazione Obama, capo della campagna per la rielezione, poi guida della campagna, sempre per la rielezione, di David Cameron e stratega della vittoria unionista nel referendum per l’indipendenza scozzese, si prepara a sbarcare in Italia come consulente di Renzi per il referendum a venire sulla riforma costituzionale. Strano? Non tanto, forse – anche se l’elettore italiano è latino e non anglosassone – perché cosa si può immaginare di più individuale e, quindi, disintermediabile della scelta di un cittadino sulla riforma della Costituzione?
Insomma: il rapporto web-potere non è solo Silicon Valley. E lo ammette anche Morozov che riconosce proprio in formazioni come 5 Stelle o Podemos partiti che propongono un “populismo di sinistra” senza i tratti liberal-liberisti delle imprese della Valley. Concludendo che la battaglia è tra due populismi, uno di sinistra e uno di destra.
Sarà. Ma forse si dovrebbe cominciare dall’ammissione che l’era della disintermediazione è così complessa, veloce, in costante mutamento, che definirne la direzione di marcia è uno sport estremo quanto, probabilmente, inutile. E che vale la pena, semmai, di interrogarsi sulla difficoltà di esprimere una qualche forma di spirito critico nei confronti di una realtà sempre più priva dei filtri offerti, un tempo, dalla libera stampa. Almeno, laddove questa esisteva. Nel frattempo, i corpi intermedi sono avvertiti.