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Come crescerà la guerra del petrolio tra Iran e Arabia Saudita

Riceviamo e pubblichiamo

Cosa significa davvero, per Teheran e per l’Occidente, la cessazione delle sanzioni verso l’Iran?
L’annuncio, il 16 gennaio scorso, da parte del governo sciita di Teheran e del P5+1 che le sanzioni sono cessate, significa che la IAEA ha stabilito che l’Iran ha rispettato (ma ci sarebbe qui molto da aggiungere) tutti i termini del trattato JCPOA sulla eliminazione del nucleare militare e il controllo di quello civile da parte del regime sciita.
E’ una decisione figlia più della crisi economica occidentale che della reale volontà iraniana di cessare le sue attività nucleari militari-civili; ma ormai il crollo geoeconomico dell’Occidente è tale e così rapido che ogni scelta strategica globale si deve, tristemente, sottomettere alle necessità di sopravvivenza politica e economica dei nostri sistemi sociali.

Le sanzioni della UE, degli USA e delle Nazioni Unite sono ormai sostanzialmente rimosse, soprattutto per quanto riguarda i settori finanziari, dei trasporti, della logistica e dell’energia, mentre sopravvive l’embargo verso Teheran da parte degli USA.
I numeri qui sono importanti più del solito: finora le società iraniane rimosse dalla lista delle sanzioni sono 278 per quanto riguarda il settore dei trasporti, 114 nel reparto dell’energia, 16 nell’ambito delle imprese che si occupano di ingegneria, costruzione e manifattura, poi 20 società di trading iraniane potranno lavorare anche in Occidente, poi ancora ben 53 aziende legate al ciclo del nucleare, infine 111 imprese iraniane che si occupano di finanza e assicurazioni.
Inoltre, sono stati tolti dalla lista delle sanzioni all’Iran altre 600 persone fisiche e imprese di piccole e medie dimensioni.
Circa la metà di queste ultime 600 aziende e persone riguarda il settore dei trasporti, un reparto-chiave per una nazione dall’economia legata al petrolio come quella iraniana.

Si tratta qui in particolare della Islamic Republic of Iran Shipping Lines, della National Iranian Tanker Company e dei loro uffici e società correlate.
In percentuale, la cessazione delle sanzioni ha rimesso in gioco il 20% delle imprese energetiche di Teheran, il 20% del suo settore bancario e assicurativo e solo un 9% del comparto nucleare.
Il rimanente riguarda i settori del trading, dell’ingegneria, delle costruzioni, la manifattura e i tanti gruppi che si occupano di import-export.
Molte di queste imprese risultano peraltro ancora attive nelle attività missilistiche o comunque militari di Teheran, numerose banche uscite dal quadro sanzionistico hanno ancora legami con le reti coperte del procurement atomico, altre imprese sono state utilizzate come copertura di attività nucleari non dichiarate alla IAEA.
Già, perché occorre qui ricordare che, secondo il JCPOA, l’Iran può impedire ancora le visite dell’Agenzia di Vienna ai siti di “rilievo militare” e, comunque, anche gli esperti della IAEA devono essere sottoposti al’accettazione, o meno, del governo iraniano.

Per la UE, in ogni caso, sono stati esclusi dalle precedenti sanzioni i trasferimenti di fondi e gli scambi finanziari e bancari tra entità europee e iraniane, le attività bancarie, con la possibilità per le aziende creditizie di Teheran di aprire filiali in area UE, le assicurazioni e riassicurazioni per le aziende iraniane operanti in Europa, l’importazione di petrolio gas e prodotti petrolchimici dall’Iran, gli investimenti EU nel settore estrattivo di quel Paese, tutte le attività armatoriali e di costruzione navale, l’esportazione di oro pietre preziose e monete, di cui l’Iran è ricco almeno fin dal tempo delle Mille e una Notte.
Gli USA hanno tolto le loro sanzioni all’Iran e alle società non americane che operavano con l’Iran soprattutto per quanto riguarda il settore degli idrocarburi, anche se rimane una proibizione esplicita, da parte del governo di Washington, per le attività e le persone fisiche americane ad operare ancora con il governo iraniano.
In ogni caso, la lista per settore ripete, in gran parte, l’elenco che abbiamo già visto per la UE.
L’ONU ha mantenuto però l’embargo per sole 36 società e persone fisiche, mentre rimane la normativa sanzionistica per le armi convenzionali, che dura cinque anni, per le tecnologie riguardanti i missili balistici, che rimane in piedi otto anni e, naturalmente, viene mantenuta la restrizione sulle tecnologie riferite al settore nucleare.

Malgrado l’accordo del P5+1, vi sono centinaia di persone e società iraniane che non sono state rimosse dall’elenco sanzionistico.
Si tratta di 86 persone fisiche o giuridiche per l’ONU, fra cui la Banca Sepah, di oltre 150 per l’EU, tra cui banche e società di trading petrolifero, di oltre 160 per gli USA.
Molte di queste figure sono comuni tra i vari elenchi.

Fin qui i dati essenziali per capire la questione. Ma quale sarà l’effetto geostrategico della nuova interazione tra l’Iran e le potenze occidentali del P5+1? Come tutti ormai sappiamo, siamo in una fase di caduta verticale dei prezzi petroliferi.
L’Iran ha tutta l’intenzione di invadere i mercati globali con petrolio e gas, ma in questo caso lo scontro tra il Paese di riferimento del “partito di Alì” e quello del purismo wahabita e sunnita, l’Arabia Saudita, potrebbe passare da una tensione periferica, gestita da proxy, come gli yemeniti houthi per Teheran o i jihadisti “moderati” in Siria, ad una guerra diretta tra le due entità dell’Islam.

L’eccesso di produzione petrolifera al mondo viene calcolato da alcuni tecnici in 9-12 milioni di barili-giorno e ciò dura da circa 16 mesi.
Gli USA hanno giocato all’abbassamento dei prezzi per destabilizzare l’economia e quindi la proiezione di potenza russa tra Ucraina e Siria; Riyadh vuole la caduta del greggio per evitare il sorgere dello shale oil nordamericano, che infatti ha bisogno di un prezzo minimo al barile di 50 Usd per essere in pari con il costo di estrazione, l’UE è in crisi economica e si può permettere meno petrolio.
È una tempesta geopolitica perfetta: tanto maggiore sarà la caduta dei prezzi, o la loro irrilevanza rispetto ai costi (che è il vero problema) tanto maggiore sarà la concorrenza interna tra i produttori.

La domanda di petrolio cade dalla metà del 2014, lo abbiamo visto e l’Europa abbatte la domanda, mentre gli USA estraggono sempre più shale oil e la Cina diminuisce il suo import di petroli.
Se quelli dell’OPEC avessero letto i manuali di economia neoclassica liberale, avrebbero diminuito l’estrazione, per mantenere alti i prezzi.
Invece i sauditi decidono di far aumentare l’estrazione non per mantenere i prezzi (i sauditi vanno in pareggio con 100 dollari al barile) ma unicamente per mantenere la loro quota di mercato.
Allora, il terreno per la guerra tra Iran e Arabia Saudita sarà nelle distruzione o nella messa fuori-mercato, con azioni terroristiche e jihadiste, dei rispettivi alleati che hanno una economia oil-dependent.

L’altra variabile è la rapida rimonta dell’economia cinese, che potrebbe far salire i prezzi oltre un limite tale da evitare la guerra diretta o indiretta tra sciiti e sunniti.
Ora Pechino importa circa l’8% in più dello scorso anno, ma i cinesi sono clienti importanti dell’Iran, per ovvie ragioni tecniche e geopolitiche, mentre Riyadh rimane il secondo esportatore di petrolio verso la Cina. Il primo è la Federazione Russa.
E, peraltro, Xi Jinping ha migliorato ulteriormente, nella sua visita questo mese in Medio Oriente, i rapporti sino-sauditi.
Pechino non vuole la destabilizzazione del Grande Medio Oriente e distribuisce le sue carte tra tutti i giocatori, per essere poi il broker dei nuovi equilibri regionali.
E per questo motivo, peraltro, che Mosca tra mediando attivamente tra Teheran e Riyadh, per evitare sia lo scontro che l’espansione delle proxy war che, nella prospettiva russa, fanno solo il gioco “della NATO e dell’Occidente”.
Se si incendiasse l’area islamica dell’OPEC, cosa ne sarebbe delle linee di trasporto petrolifero russe dall’Asia Centrale?

Poi l’Iran ha dichiarato più volte che il suo petrolio sarà gestito sul mercato in modo tale da evitare ulteriori cadute del prezzo del barile.
Produrranno quindi, per usare le loro stesse parole, “tanto quanto il mercato può assorbire”. Ma certamente non potranno fare a meno di intaccare l’area di mercato saudita.
Ma c’è una variabile: la distribuzione demografica e religiosa della popolazione saudita.
Gli sciiti presenti in Arabia Saudita sono circa otto milioni e si concentrano nelle aree orientali, dove ha sede la Saudi Aramco (a Dahran) e il più grande giacimento del mondo, Ghawar, oltre al più grande terminal globale, quello di Ras Tanura. Oltre all’impianto di raffinazione di Abuqaiq, che è il maggiore di tutto il sistema OPEC.
Gli sciiti sono la larghissima maggioranza dei lavoratori del greggio dell’area e potranno essere, o forse lo sono già, “gestiti” dai fratelli iraniani.

Non è difficile immaginare cosa succederebbe se una rivolta sciita nella provincia orientale degli Al Saud destabilizzasse la produzione del primo Paese OPEC e aggiungesse il maggior prodotto petrolifero mondiale al sistema economico e decisionale sciita.
Ma mantenere i prezzi bassi, d’altro canto, permette di smaltire le scorte più rapidamente.
Se quindi i sauditi mantengono il prezzo basso per espandere la loro quota di mercato, primaria rispetto alla redditività, è probabile che vogliano lo scontro diretto con gli iraniani.
Secondo gli analisti di molte merchant bank occidentali, lo scenario di una guerra vera e propria tra Iran e Arabia Saudita potrebbe portare a un picco immediato di 300 dollari al barile, per poi stabilizzarsi verso i 100, il limite di redditività della produzione saudita.
Gli iraniani hanno un punto di redditività più alto di quello di Riyadh. Ed è qui che si valuterà la durata e quindi il vincitore dello scontro.

Teheran, in una conferenza dello scorso anno con le maggiori imprese di estrazione mondiali, sta cambiando le regole commerciali del greggio, permettendo la prenotazione delle riserve pur mantenendo la proprietà del suolo.
L’Iran attrarrà almeno 30 miliardi in dollari di investimenti nel suo petrolio, con contratti da 25 anni per gli estrattori esteri nei nuovi campi petroliferi e alcuni meccanismi di compensazione per l’oscillazione dei prezzi.
Ed era, malgrado le sanzioni, la seconda economia del Medio Oriente e la settima in tutta l’Asia. Si può facilmente immaginare cosa potrebbe succedere dopo il regime sanzionistico.
È una lotta per l’egemonia sul petrolio, tramite il quale si comanda il mondo e le economie occidentali, e nulla vieta, salvo la attenta mediazione russa e la politica di equilibrio tra le parti cinese, che il peggio non accada.



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