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Iran, che succede tra Rouhani e Khamenei?

La politica interna alla Repubblica islamica dell’Iran funziona come una sorta di pendolo. Dalle oscillazioni irregolari e spesso imprevedibili, ma sempre oscillante. A una fase di aperto riformismo come quella delle presidenze Khatami (1997-2005) sono seguiti, tanto per fare un esempio, gli anni da tregenda dell’ultra radicale Ahmadinejad. La Guida suprema (rahbar) – l’ayatollah Ali Khamenei – ama presentarsi come il baricentro del litigioso e frammentato sistema politico iraniano, il punto di sintesi di spinte divergenti che potrebbero portare alla crisi del nezam, il sistema, come viene spesso definita la struttura politica della Repubblica islamica.

In realtà egli è molto più di un mediatore, dato che usa tatticamente le fratture interne all’élite post rivoluzionaria per rafforzare e mantenere il proprio potere, in particolare contro i presidenti della Repubblica che si sono succeduti dal 1989 in poi, anno della sua ascesa alla massima carica dello Stato. Inoltre, è evidente come il suo conservatorismo e la sua ostilità nei confronti di ogni apertura verso l’occidente e verso maggiori libertà individuali abbiano irrimediabilmente sbilanciato verso i conservatori l’asse di questo pendolo politico.
Così, non sorprende che all’indomani del difficilissimo compromesso sul nucleare – che ha segnato una vittoria personale del presidente moderato Hassan Rouhani e una sconfitta di parte dei pasdaran e ultra-radicali – non vi siano state quelle auspicate ricadute sul piano interno, come alcuni ingenuamente si aspettavano. Anzi, in queste settimane sembra esservi una ripresa delle pressioni di pasdaran, servizi di sicurezza e stampa conservatrice contro giornalisti, politici vagamente riformisti e imprenditori.

E tutto ciò avviene per vari motivi; innanzitutto Khamenei, che si è speso in prima persona per sostenere il governo Rouhani nelle sue trattative sul nucleare, deve in qualche modo rassicurare i conservatori, sottolineando che l’accordo con l’odiato occidente non provocherà aperture indesiderate sul fronte interno. Il compromesso era un’amara necessità per evitare la catastrofe economica ai suoi occhi, non certo l’inizio di una normalizzazione delle relazioni internazionali. Inoltre, le sanzioni hanno creato un mercato protetto in cui hanno prosperato le aziende collegate ai pasdaran, sempre più una sorta di Stato nello Stato, con un’enorme ramificazione nei gangli economici e finanziari del regime. In queste settimane, l’apertura del mercato iraniano e la corsa di aziende straniere a siglare affari li preoccupa fortemente, dato che mina i loro interessi economici, obbligando le loro società a confrontarsi con possibili concorrenti. Da qui le intimidazioni e le pressioni per garantire quei privilegi in stile “mafia economica” che contraddistingue ormai la struttura delle guardie rivoluzionarie.

Infine, non va dimenticato il tatticismo esasperato delle lotte politiche interne al nezam. Nel febbraio 2016 si terranno due importanti elezioni: quelle legislative per il rinnovo del Parlamento e quelle per eleggere l’Assemblea degli Esperti, l’organismo costituzionale che ha il potere (teorico) di far dimettere la Guida suprema, eletta a vita. È evidente come queste elezioni siano percepite come una sorta di referendum sul governo Rouhani. Pur non essendo un riformista, il presidente, di fatto, rappresenta quel che resta di quel movimento e ne sta adottando progressivamente alcuni dei temi e degli obiettivi. Il rischio paventato dai conservatori e dallo stesso rahbar è che l’entusiasmo per l’accordo con l’occidente e la ripresa delle relazioni economiche e commerciali crei pericolose aspettative popolari in tema di libertà politiche e culturali. Qualcosa che il blocco anti-riformista non vuole più in alcun modo concedere: non si dovranno ripetere né la stagione riformista di Khatami né, tantomeno, le proteste popolari seguite ai brogli elettorali del 2009 che portarono alla rielezione di Ahmadinejad.

Per questo motivo non vengono rilasciati i candidati riformisti arrestati all’indomani delle proteste del 2009 e, da allora, agli arresti domiciliari. E sempre per bloccare il ritorno della temuta “Onda verde” riformista – spezzata con le violenze e le brutali repressioni – si preme sui giornali moderati e ci si prepara a frapporre ostacoli ai candidati sgraditi all’establishment. Lanciando segnali allo stesso presidente Rouhani, che è stato finora molto cauto, attento a non scontrarsi pubblicamente con Khamenei e con gli ultra-radicali. Ma in questi giorni egli è sembrato meno arrendevole e ha accusato pubblicamente magistratura e forze di sicurezza di colpire in modo strumentale e di manipolare le parole del rahbar. Il quale non solo non frena le pressioni, ma anzi ribadisce continuamente che è da ingenui – o peggio – pensare che gli Stati Uniti non vogliano la distruzione della Repubblica islamica. E che non si possono considerare possibili dei vantaggi da più strette relazioni con l’occidente. Del resto, egli ha sempre detto di non temere i missili occidentali, ma solo la nostra cultura.

In fondo ne ha buone ragioni. La società iraniana è in larga parte ormai post islamica: il regime teocratico, con la sua corruzione e illiberalità, ha allontanato gran parte degli iraniani dalla religione e dal clero sciita. Gli slogan della rivoluzione islamica, ripetuti ossessivamente, sono uno sterile guscio vuoto, su cui buona parte degli iraniani ironizza appena può e verso i quali prova una rassegnata insofferenza. Tuttavia, questi ultimi due decenni hanno dimostrato che gli iraniani sanno sfruttare con abilità ogni spiraglio e ogni crepa dentro il nezam per ricercare maggiori libertà culturali, personali e politiche. Non sorprende quindi che la parte più intransigente e violenta del regime sia oggi impegnata a scoraggiare altre illusioni alla vigilia delle nuove elezioni, per evitare che nuove oscillazioni riportino l’Iran verso quel cammino di riforme e di crescita democratica che tanto li spaventa.

Articolo pubblicato sul numero 109 della rivista Formiche

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