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La guerra di Isis è anche psicologica

Gli attacchi terroristici colpiscono individui e istituzioni. Gli effetti possono essere diretti e indiretti ed è evidente che le conseguenze non sono sempre visibili, ma si rappresentano in una serie di influenze a livello psicologico-­comportamentale, che disegnano un’ampia costellazione. Quelli visibili, che mostrano un cambiamento comportamentale generale si osservano, ad esempio, negli andamenti dei mercati finanziari, nel crollo dei viaggi in determinate mete, negli s​hift d​i frattura dell’opinione pubblica in relazione alle politiche di governo, nei cambiamenti drastici degli orientamenti politici, nell’adozione di tecniche di difesa come l’acquisto di strumenti e tecnologie per la propria difesa personale. Q​uesto perché, nella percezione della vulnerabilità alla minaccia terroristica, alcuni individui adottano comportamenti adattivi­-predittivi alterati dalla percezione del pericolo.

Il rischio percepito in tema di terrorismo è centrale, sia per gli aspetti legati alle politiche decisionali sia per valutare gli effetti dei fenomeni terroristici. Il terrorismo rappresenta una guerra che si gioca tutta sul piano psicologico e gli attacchi di matrice terroristica sono esclusivamente strumenti di questa guerra, avendo come obiettivo la psiche umana e collettiva. L’obiettivo è l’assoggettamento della mente all’ansia e alla paura: intimidire e produrre preoccupazione e senso di impotenza in modo sproporzionato, obiettivo molto più impattante di quello che è il danno diretto causato da un attacco. E proprio la percezione del rischio e la paura sono indicatori di come le persone rispondano alle minacce terroristiche e di quanto la guerra psicologica raggiunga i suoi obiettivi con successo.
Sappiamo che il concetto di rischio è un concetto psicologico, ma il rischio è anche un fenomeno socialmente costruito e strategicamente utilizzato.

Molto spesso è basato sulla percezione e non sulla realtà, laddove la realtà percepita appunto non è quella reale. Il rischio deriva dalle attribuzioni in termini qualitativi e quantitativi della realtà e, anche quando i fatti reali e le probabilità di un particolare pericolo sono ben definiti, il giudizio umano resta basato sull’interpretazione delle percezioni e sull’influenza di numerosi b​ias cognitivi che hanno come effetto la distorsione della percezione, ovvero la lettura degli stimoli in modo inadeguato. È scientificamente dimostrato che la percezione del rischio di un attacco terroristico è spesso sproporzionata rispetto al rischio reale.

È interessante comprendere questo passaggio perché fa luce sulle reali dinamiche psicologiche coinvolte: molti studi hanno dimostrato che non si ha la stessa percezione del rischio reale o presunto e ne è un esempio fra tanti quello di chi sceglie di fumare, pur avendo ben chiare le possibili e statisticamente rilevanti conseguenze. I​noltre la paura di una minaccia terroristica provoca grandi reazioni da s​tress e produce differenti effetti psicologici, le cui risposte indotte mantengono una forte influenza soggettiva: gli individui sono chiamati a una risposta che necessita di un cambiamento cognitivo e comportamentale per reagire allo stress​c​he vivono.
All’interno della dimensione psicologica è centrale il ruolo delle emozioni. In contesti come quello che viviamo oggi, tristezza e paura aumentano in modo esponenziale.

Le emozioni correlate sono molte, così come le risposte comportamentali. Alcuni individui rispondono con emozioni positive di ottimismo e proseguono mantenendo lo stile di vita precedente, contrariamente a molti altri che vivono questa condizione di pericolo modificando le attitudini, i propri comportamenti e manifestando diffidenza e rifiuto.
Le risposte cognitive all’anticipazione del pericolo sono naturali e le emozioni stimolate non sono solo conseguenza – ma anche stimolo – di altri comportamenti. L’a​rousal (stimolo) a una percezione di pericolo e l’impulso a fuggire da esso sono risposte coerenti e fisiologiche, ma sappiamo anche, grazie agli studi sul sistema limbico e sul ruolo dell’amigdala, che spesso queste risposte si attivano anche quando non c’è effettivamente un rischio imminente – ad esempio casi di panico e psicosi collettiva che sono spesso legati alle fasi immediatamente successive agli attacchi terroristici – ma questo stato di percezione del rischio permane a lungo, come ha mostrato Boscarino nel 2003: a distanza di due anni dall’attacco alle Torri gemelle, il 45,7% dei newyorkesi si dichiarava ancora molto preoccupato di un possibile nuovo attacco sul suolo statunitense.

Questo senso generale di insicurezza ha riflessi significativi anche su chi si occupa di garantire la sicurezza da un punto di vista operativo e decisionale­politico, perché la paura suscita incertezza e fa sentire l’individuo incapace di controllare gli eventi: la paura prodotta da una sproporzionata percezione del pericolo influenza i comportamenti dei singoli, delle comunità e delle folle, stimola giudizi e decisioni inadeguate e irrazionali. Mantenere le persone al sicuro non basta: devono anche sentirsi al sicuro. La comprensione delle dinamiche legate alla percezione del rischio risultano fondamentali sia per l’attuazione di piani e strategie di sicurezza nazionale sia per la preparazione di programmi di emergenza: questi, infatti, non possono prescindere da una attenta valutazione degli aspetti psicologici coinvolti.

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